per nutrire la fede …
CREDERE NELLA VITA
OLTRE L’ANGOSCIA DELLA MORTE
2 Novembre
Commemorazione dei fedeli defunti
Introduzione
Vale la pena di fare una premessa: la Parola di Dio si rivolge a uomini che sentono profondamente e con angoscia il problema della morte. Non avrebbe nulla da dire a coloro che invece
si illudono di scrollarsi di dosso la morte non pensandoci, o che affermano che si tratta di un evento biologico del tutto normale. Per l’uomo biblico la morte è qualcosa che mette in discussione
il senso della vita e mette alla prova la fede.
Le affermazioni di Gesù, dense e lapidarie, fanno parte del grande discorso sul pane di vita: un discorso nel quale Cristo afferma di essere la risposta alla ricerca dell’uomo, Colui che dà senso
alla fatica di vivere. E lo afferma polemicamente: senza di Lui la vita resta un enigma e le risposte che provengono da altre parti sono, nel migliore dei casi, parziali e insufficienti: “I
vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti”. Le affermazioni di Cristo si pongono, lo ripetiamo, come una risposta, per apprezzare la quale occorre sia pure a
grandi linee ricostruire la domanda e farla propria. E’ una domanda che nella Bibbia affiora numerosissime volte. Perché l’uomo biblico è pieno della gioia di vivere (ama la vita e sa che la vita
è un dono), ma è anche un uomo profondamente consapevole della propria caducità.
La Bibbia conosce la morte: “Noi moriamo e siamo come acqua che scorre”(2 Sam 14,14). Da una parte, la certezza di un Dio che è buono, che ama la vita che ha creato l’uomo per la vita, e dentro
di noi una grande voglia di vivere; dall’altra, una esistenza breve, faticosa, contraddittoria, e alla fine la morte. La morte sembra togliere ogni senso alla vita: l’uomo
si affatica costruisce e lavora ma poi deve morire. E così l’uomo appare come un capolavoro sciupato, e il dono della vita come una promessa non mantenuta.
“Sono la risurrezione”
E’ a questo punto che si apprezza fino in fondo l’affermazione di Cristo: “Io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. E solo dopo aver assaporato la vanità dell’esistenza e aver provato l’angoscia di
morire sentimenti che sono nel profondo di noi stessi, ma che troppe volte fingiamo di non sentire - che la parola di Gesù si presenta a noi come luce e consolazione. Certo non
dissipa tutta l’oscurità della morte (la nostra fede resta debole e la nostra paura resta grande), come non lo ha fatto neppure per lo stesso Gesù nel Getzemani: però è una Parola capace di
offrirci accanto al turbamento la serenità.
Le affermazioni di Gesù non si limitano ad affermare la vittoria sulla morte (“Io vi risusciterò”), ma indicano le modalità della vita che ci viene offerta e indicano inoltre, le condizioni
richieste perché il dono della vita ci raggiunga.
La vittoria sulla morte è un dono di Dio ecco la prima caratteristica. Non è l’uomo che si conquista l’immortalità, ma è Dio che gliela dona. E questa è una consolazione, perché l’amore di Dio
non viene mai meno e non abbandona nessuno. L’uomo minacciato dalla morte deve abbandonarsi a Dio, fidarsi del suo amore. E’ infatti il suo amore (il suo amore per la vita) il vero fondamento
della nostra speranza.
La vita che ci viene donata (seconda caratteristica) non è una riproduzione della vita precedente: è una vita nuova e diversa, una vita con Dio. Dio ci chiama a far parte della sua stessa
vita.
Ed è una vita che afferra l’uomo intero, corpo e spirito, individuo e comunità. Tutta la persona dell’uomo è chiamata a vivere non solo una sua parte. Per questo si parla di “risurrezione”.
Simili a Cristo
E’ un dono che esige una condizione cioè la comunione con Cristo (“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”). Una comunione con
Cristo che si vive nella fede, nel sacramento e nel condurre una esistenza simile alla sua. Per vincere la morte bisogna vivere come lui ha vissuto. E’ infatti la via della Croce che porta alla
risurrezione.
Se comprendiamo queste cose, allora la morte non è più uno scandalo che mette in discussione il senso della vita: è un “sonno” o, meglio ancora un “passaggio”, immagini assai care alle prime
comunità cristiane.
Per il credente l’esperienza della morte non porta più a concludere che la vita è priva di significato, ma al contrario apre a una speranza. Tutto questo è molto
importante. Tuttavia ci sembra che la liturgia di oggi intenda anche invitarci a riflettere in un’altra direzione. La morte deve insegnarci a vivere. Credo che la morte sia in grado di offrirci
almeno tre lezioni importanti.
Tre lezioni
Prima: l’uomo lavora, si affatica, cerca e si affanna, ma tutto questo sforzo è sprecato, a meno che l’esistenza non si prolunghi, a meno che alla fine della propria giornata l’uomo non incontri
il Signore. Il pensiero della morte in altre parole ci fa capire che la vita non avrebbe senso senza Dio e che l’uomo non trova in se stesso la propria spiegazione, ma
soltanto una radicale e insolubile contraddizione.
Seconda: la meditazione della morte deve aiutarci a comprendere la profonda stupidità di troppi nostri modi di vivere: la stupidità dell’ansia dell’accumulo, del tempo perso alla ricerca di
ambizioni, le rivalità. Tutte cose prive di ogni vero significato, che ci rubano tempo e vita a scapito delle cose che contano. Gli uomini mi diceva un giorno un amico dovrebbero
visitare una volta alla settimana un ospedale o un cimitero: molte cose cambierebbero, ritroveremmo le nostre proporzioni.
Terza: la meditazione della morte deve indurci a concentrare la vita sulle cose che rimangono. Perché non tutto rimane. Rimane l’amore, la fraternità, la povertà per il Regno, in una parola
rimangono le beatitudini. E’ un pensiero che già abbiamo accennato e che è veramente conclusivo: se si vuole vincere la morte occorre vivere come Cristo ha vissuto.