La dimensione contemplativa della vita: un’urgenza antropologica

 

 

 

L’articolo di Luciano Manicardi, monaco di Bose, risuona quale provvido invito a riconsiderare la qualità dei nostri `tempi’ quotidiani. La suggestiva riflessione riprende il tema dell’otium sia nella sua originaria declinazione classica sia nella ripre­sa della tradizione spirituale cristiana. Particolare attenzione viene poi posta alle risonanze che queste due matrici hanno avuto presso alcuni pensatori moderni e contemporanei, accomunati dalla denun­cia delle derive antropologiche causate dalla progressiva egemonia della tecnica e dell’economia nella società attuale. II tema dell’otium rimanda così a un impegnativo e più ampio discernimento sulla sa­pienza del vivere e a una presa di distanza da quella frenesia del fare, sovente non estranea anche all’agire pastorale, che ben si presta a far da schermo a una relazione profonda con se stessi.

 

 

 

 

 

Non è necessario che tu esca di casa.

 

Rimani al tuo tavolo e ascolta.

 

Non ascoltare neppure, aspetta soltanto.

 

Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine.

 

Il mondo ti si offrirà per essere smascherato,

 

non ne può fare a meno,

 

estasiato si torcerà davanti a te. (F. Kafka)

 

 

 

 

 

 

 

Tempo di crisi o crisi del tempo?

 

Se si toglie dalla vita ogni elemento contemplativo, questa finisce col soffrire di iperattività mortale. L’uomo soffoca nel proprio stesso fare. Una rivitalizzazione della vita contemplativa è necessaria per aprire spazi di respiro. Lo spirito nasce da un sovrappiù di tempo, da un otium, da una lentezza del respiro [...]. Una democratizzazione dell’otiúm deve succedere alla democratizzazione del lavoro perché questo non degeneri in schiavitù di tutti.

 

Così il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han conclude il saggio dal seducente titolo Il profumo del tempo. Saggio filosofico sull’arte di soffermarsi sulle cose, pubblicato in Germania nel 2009. In un mondo «colpito da una sindrome generale di dispnea» occorre ritrovare spazi di respiro perché solo così si potrà ritrovare anche uno spirito: giocando sul doppio senso della parola greca pneuma (respiro/soffio e spirito) il filosofo afferma che «chi perde il soffio perde anche lo spirito». La crisi spirituale contemporanea riguarda essenzialmente il tempo, sicché più che di tempo di crisi dovremmo parlare di crisi del tempo, di un rapporto con il tempo che, nella nostra ipermodernità, si nutre di accelerazione, atomizzazione, produttività.

 

L’accelerazione tecnica, delle trasformazioni sociali, del ritmo di vita, è constatazione quotidiana di ciascuno di noi: e l’accelerazione produce anche l’annientamento dello spazio, la scomparsa delle distanze, della geografia. «Non ho tempo» è il nostro quotidiano ritornello, ma quando non c’è più spazio per il tempo anche lo spazio non è più vissuto né goduto e diviene un luogo di transito, un non-luogo, un luogo non abitato. «Il mondo intero ci è offerto in un secondo o con qualche ora di aereo, e noi non abbiamo mai il tempo di goderne». L’atomizzazione del tempo fa sì che non abbiamo più a che fare con il tempo, ma con tempi, successivi, incalzanti, che non costruiscono una storia ma che si sovrappongono l’uno dopo l’altro sostituendosi l’uno all’altro e annullandosi l’uno con l’altro. Corriamo da un presente a un altro, non conosciamo più soglie e passaggi, intervalli e pause, attese e sedimentazioni. La tecnologia che regola il tempo e domina le nostre vite tende a creare una simultaneità e una prossimità costante rendendo tutto disponibile immediatamente, qui e ora, abolendo i «tempi morti» delle attese, facendo scomparire spazi e tempi intermedi sicché «vi sono soltanto due stati: il niente e il presente»

 

Per quell’essere temporale che è l’uomo, frammentazione e disintegrazione del tempo diventano anche frammentazione dei processi di individuazione e disintegrazione delle identità personali. Viviamo vite depresse in società depresse. La vita sotto il segno della depressione è la vita in cui uno sente di non avere più tempo perché il tempo che corre a ritmi sempre più veloci lo lascia irrimediabilmente indietro facendone uno scarto, e in cui sente di non avere più un luogo da abitare, in cui trovarsi al sicuro, in cui dimorare, riposare e rifugiarsi, sicché si sente ovunque braccato. Il problema è che oggi questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente [...] alla vita quotidiana di decine di milioni di persone che non si considerano affatto depresse. Ma vivono in un mondo in cui sembra che il tempo acceleri, perché l’economia le minaccia, perché la competizione non permette di “prendere tempo”. E simultaneamente lo spazio si riduce: tutti i posti del mondo tendono ad assomigliarsi’.

 

La produttività ribadisce il carattere meramente quantitativo dell’esperienza temporale che oggi è possibile fare. L’imperativo del lavoro e del fare, 1’ipercinesia della vita quotidiana, quella che Byung-Chul Han chiama «1’assolutizzazione della vita activa», tolgono ogni dimensione contemplativa al vivere umano e così lo disumanizzano rendendolo agitato, disordinato, senza direzione, ansioso, affannato, stressato. Siamo disorientati. Per orientarsi occorre fermarsi, scrutare l’orizzonte, guardarsi intorno: occorre tempo e quiete. Il multitasking è una cifra di questo modello temporale sottomesso all’imperativo della produttività a ogni costo, modello che produce, a sua volta, omologazione, massificazione e spersonalizzazione. Questa distorsione del rapporto con il tempo si manifesta nell’imperativo del consumo che è l’esatto contrario della contemplazione.

 

Nella società dei consumi si disimpara ad attardarsi. Gli oggetti di consumo non permettono minimamente che ci si attardi nella contemplazione. Essi sono consumati e utilizzati il più in fretta possibile per poter far posto a nuovi bisogni. Attardarsi in uno stato contemplativo presuppone degli oggetti che durino. Ma l’obbligo del consumo abolisce la durata.

 

Solo con il coraggio di soffermarci sulle cose possiamo scoprirne la durata, possiamo legare esterno e interno, solo pensando e dando tempo al pensare e al riflettere possiamo fare unità tra passato e presente. Solo con un atteggiamento ascetico verso il mondo e le cose queste possono consegnarci la loro bellezza. L’esperienza della durata è contemplativa. Lo esprime bene Peter Handke: « O durata, mia quiete! O durata, mia sosta!».

 

Il consumo si oppone anche a quell’esperienza che sembra sempre più rara, l’esperienza dello stupore. L’uomo di sabbia di cui parla la psicoanalista Catherine Ternynek per designare l’inconsistenza dell’individuo contemporaneo sgretolato nella sua soggettività, sembra «aver perso la capacità di stupirsi». Stanchezza, nervosismo, agitazione, ansia, preoccupazione, demotivazione, senso di impotenza: queste, e altre simili, sono le parole che descrivono lo stato d’animo dell’uomo contemporaneo a cui l’esperienza dello stupore appare ormai preclusa. Di cosa stupirsi quando il mondo è a portata di click? Come stupirsi se non ci si sofferma sulle cose, se non si lascia loro il tempo di manifestarsi a noi e se non ci prendiamo noi il tempo per immergerci in esse con la lentezza e la lunghezza dello sguardo che ascolta e si lascia illuminare dalle cose stesse?

 

Lo sguardo lungo e contemplativo, a cui solo si dischiudono gli uomini e le cose, è sempre quello in cui l’impulso verso l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza [...] impone all’osservatore di non incorporarsi l’oggetto: prossimità nella distanza.

 

Dunque: recuperare la dimensione contemplativa dell’esistenza, senza la quale il vivere perde sapore e profumo. Perde gusto. Ma per ritrovare un rapporto umanizzante con il tempo occorre misurarsi sulla capacità di solitudine, poiché «la solitudine riguarda la vita contemplativa», e occorre interrogarsi su quella dimensione dell’otium che da sempre è al cuore di una vita spirituale.

 

 

 

Scomparsa della solitudine?

 

Anche la solitudine cambia con il passare degli anni, con il mutare delle epoche, e particolarmente, con l’evolvere delle tecnologie. Essere soli oggi, nel ventunesimo secolo, nel mondo occidentale, è molto diverso da come lo era anche solo vent’anni fa. Oggi la solitudine non coincide con l’essere fisicamente soli, con il non avere nessuno accanto: non basta questo per essere veramente soli. Con Internet il mondo invade la nostra stanza e abita la nostra intimità; attraverso la rete gli altri sono presenti anche nella nostra solitudine; le diverse tecnologie sembrano obbedire all’imperativo di evitarci la solitudine. Ha scritto Gabriele Romagnoli in un articolo su «Repubblica» del 2 giugno 2014 intitolato La scomparsa della solitudine: Un ragazzo cammina solo in una città straniera, si ferma, estrae dalla tasca uno smartphone, solleva il braccio, sorride allo schermo, scatta. Poi controlla l’esito, clicca su un altro paio di comandi prima di riporre l’oggetto e ripartire. Si è appena fatto un selfie, fin dall’etimologia (self = se stesso) qualcosa di solitario, ma l’ha condiviso con un numero imprecisato di     persone postando l’immagine su Facebook, Instagram o qualche altro social network. Il navigatore solitario Manfred Marktel va in barca dalla Namibia a Bahia. Durante il percorso (4000 miglia) tiene un blog, fa sapere tutto quello che gli accade. Riceve commenti e risponde [...] I vagoni delle metropolitane sono pieni di palombari che chattano, in Giappone se ti siedi in un caffè e non c’è nessuno con te ti piazzano di fronte un pupazzo.      

 

Dopo aver vissuto l’esperienza di due settimane passate in un luogo ritirato senza la possibilità di collegarsi a Internet, la scrittrice Ruth          Thomas ha pubblicato le sue riflessioni sulla perdita della capacità di     stare in solitudine a cui ci conduce la vita odierna segnata dalle connessioni di rete, ma anche sul piacere di riscoprire la ricchezza e le potenzialità insite nella solitudine. Vivere qualche giorno senza telefono e senza connessione Internet è ormai esperienza eccezionale, con dimensioni antropologiche e spirituali rilevanti; è esperienza di una dimensione altra del tempo e di sé, del corpo e della psiche. È come vivere non solo in un altro modo, ma in un altro mondo. La Thomas afferma che le sembrava di vivere in un tempo passato, in un’altra epoca, duecento anni prima. Il senso di disagio che ci coglie quando ci troviamo in situazioni in cui non c’è campo per il cellulare e non c’è possibilità di collegamento Internet dice come ci siamo disabituati in fretta alla solitudine e allo stare senza far niente. Anzi, dice che «la tecnologia ci sta portando via non solo l’intimità e la concentrazione, ma anche la capacità di stare da soli». Il saggista e critico letterario William Deresiewicz, nel suo breve saggio sulla fine della solitudine, porta un eloquente esempio: «Conosco un’adolescente che in un mese ha mandato più di tremila sms. Una media di cento al giorno, uno ogni dieci minuti: mattina, pomeriggio e sera, feriali e festivi, ore di scuola, ora di pranzo, ora dei compiti e ora di lavarsi i denti. Non rimane mai da sola per più di dieci minuti. E questo significa che non ha un’intimità».

 

Insomma, diversi segnali inducono a parlare di scomparsa della solitudine, o almeno di crescente incapacità dei contemporanei di stare soli, di vivere e abitare la solitudine. Nel nostro mondo occidentale la solitudine appare come situazione a cui siamo sempre meno abituati, e nei cui confronti saremo balbettanti e disarmati quando essa si imporrà nella nostra vita, vuoi per una malattia, vuoi per un abbandono, vuoi per la vecchiaia o per altre cause. Se la telecamera ha creato la cultura della celebrità, il computer ha creato quella della connettività. Celebrità e connettività sono forme per farsi conoscere: l’uomo contemporaneo vuole essere riconosciuto, collegato, connesso, visibile, se non a milioni, almeno a centinaia di persone, magari su Twitter o Facebook. Nel postmoderno l’elemento che sembra ancorare l’io alla realtà è la visibilità. L’anonimato è un grande terrore odierno. Ora, le tecnologie contemporanee, a partire dalla televisione fino all’ipad e allo smarthone, sembrano combattere noia e solitudine dando qualcosa da fare sempre, in ogni momento e ponendo in collegamento costante le persone.

 

 

 

Tempo di «otium»?

 

Diversi osservatori della contemporaneità annotano che alla perdita della capacità di stare soli e di stare senza fare nulla si accompagna un cambiamento tale nel mondo del lavoro che rende il nostro tempo favorevole al recupero della dimensione dell’otium. Può sembrare di cattivo gusto parlare così in tempi in cui la crisi economica produce disoccupazione, precariato, perdita di posti di lavoro. Ma chiediamoci: che cos’è il lavoro? Senza entrare nelle tante definizioni di quel concetto tutt’altro che univoco che è il lavoro, occorre ricordare che, fondamentalmente, il lavoro è attività dell’uomo su di sé per costruire la propria umanità. L’umano è l’essere incompleto per eccellenza e rispetto a tutti gli animali ha bisogno di molti anni per divenire uomo, per maturare ed esprimere le sue potenzialità umane. Possiamo ripetere con Giovanni Crisostomo: «Niente quanto l’anima ha bisogno di lavorare». Ora, ciò che fa vivere una persona normalmente si situa in valori, ideali, passioni, relazioni che richiedono attenzione, dedizione, fatica, lavoro. Il poeta Rainer Maria Rilke ha scritto pagine molto belle sull’amore come lavoro, e anche su quel difficile lavoro che è la solitudine. Ma potremmo estendere la fatica del lavoro alla costruzione di un’amicizia e di ogni relazione profonda, perché sono le relazioni che danno senso e gusto al vivere, perché il vivere è il mestiere da imparare davvero, quale che sia l’attività re-munerata che ciascuno svolge. Ma chi insegna il mestiere di vivere? Quale scuola? Vengono in mente le annotazioni di Jung sull’assenza di scuole che insegnino ad affrontare la seconda metà della vita. Forse abbiamo dimenticato che cosa sia la scuola. Il termine deriva dal greco scholé, che significa «quiete, tempo libero, ozio», sicché «il termine con cui vengono indicate le sedi della cultura, anzi della formazione alla cultura, significa otium. Scuola non significa scuola, ma significa otium». La parola latina negotium («occupazione, travaglio»; da essa viene il nostro «negozio») deriva da e nega 1’otium: nec-otium. Il negotium è l’attività, l’azione, il fare, ma esso viene visto come negazione dell’attività più alta, del lavoro più degno che è l’attività spirituale. L’ozio, nel senso dell’otium antico, non è allora il padre dei vizi, ma della creatività: «L’artista», scrive Leonardo da Vinci, «quanto meno opera, tanto più crea». Così inteso, l’otium non è spreco del tempo, ma è l’uso sensato e nobile del tempo, rappresenta la possibilità di entrare in amicizia con il tempo, con se stessi, con la vita. Ma perché queste riflessioni sull’otium che a più d’uno possono sembrare maldestre e strampalate? Ascoltiamo la voce di alcuni acuti osservatori dell’oggi.

 

Nella sua Breve storia del futuro e nel suo Lessico per il futuro. Dizionario del XXI secolo Jaques Attali, economista, saggista, uomo politico (è stato consigliere speciale di Mitterand), afferma che il lavoro sarà merce sempre più rara da dividere tra molte persone, che dovranno lavorare per un periodo più breve, con compiti più virtuali, più nomadi, più precari; il lavoro diminuirà, sempre meno persone lavoreranno, il tempo occupato dal lavoro nel corso di una vita continuerà a ridursi, più della metà dei lavoratori non sarà più costituita da salariati e la metà dei salariati non lavorerà più a tempo pieno, né sarà legata all’impresa da un contratto a tempo indeterminato. Il telelavoro fornirà la metà dei posti di lavoro. Avvocati, consulenti, partner d’impresa, pubblicitari lavoreranno sempre più a casa propria utilizzando reti di telecomunicazioni; sempre più, al posto dell’uomo, là dove il lavoro sarà troppo faticoso, ma non solo, si utilizzeranno robot... Ovvero, l’attività lavorativa sequestrerà sempre meno tempo alla persona umana. Le analisi di Domenico De Masi sull’avvento dell’era post-industriale caratterizzata dal passaggio dall’attività fisica a quella intellettuale, dal lavoro ripetitivo a quello creativo, lavoro che chiede produzione di idee, capacità di pensare, duttilità e riduzione di orari, in cui per molte attività le macchine e i robot sostituiscono sempre di più gli uomini, in cui si lavora spesso stando a casa e organizzando a piacimento il proprio tempo, soprattutto con il telelavoro, e si ha a disposizione maggiore tempo libero, mostrano che oggi non è blasfemo, anzi è necessario, parlare di otium nell’attuale congiuntura culturale. E non solo è una necessità, ma anche un atto dovuto nei confronti della verità dell’uomo, è un onorare la struttura fondamentale dell’essere umano: «Per sua natura l’uomo è una creatura che non soltanto lavora, ma canta, danza, prega, racconta storie e celebra». Ed è un atto di umanizzazione, un servizio all’umanità autentica dell’uomo: Per mancanza di calma la nostra civiltà sfocia in una nuova barbarie. Mai come oggi gli attivi, cioè gli irrequieti, hanno goduto di tanta considerazione. Perciò una delle correzioni da apportare al carattere dell’umanità è di rafforzare largamente l’elemento contemplativo.

 

Possiamo perciò ora arrischiarci a un elogio della noia.

 

 

 

Elogio della noia

 

Noi temiamo la solitudine e la evitiamo. E cerchiamo di evitare il sentimento della noia ai figli o a chi viene educato. Perché genitori ed educatori cercano così accanitamente di evitare la noia ai bambini? Perché si cerca sempre di riempire il loro tempo di attività e la loro camera di oggetti e giocattoli? Forse per senso di colpa quando ci sembra che non siamo sufficientemente presenti con loro? Per paura che vivrebbero male la solitudine? Che si annoierebbero se non hanno nulla da fare? Di fatto noi riempiamo i nostri figli di regali e di cibo, credendo di aiutarli, ma così impediamo loro di sentire la mancanza e il vuoto connessi alla noia. Mancanza e vuoto che costituiscono lo spazio del possibile sorgere della creatività. E tuttavia i bambini arriveranno comunque a conoscere il dolore della mancanza. Sarebbe meglio lasciare loro la possibilità di essere soli e in silenzio, insegnare loro a gustare e a gestire la solitudine così che, il giorno in cui mancanza e incompiutezza si faranno sentire e essi patiranno il dolore della perdita, scoprirebbero di avere già in sé una forza interiore per farvi fronte.

 

La solitudine la associamo alla noia. Combattiamo la noia e la solitudine avendo sempre qualcosa da fare. In verità non sappiamo coltivare e nutrire i nostri vuoti, ma tendiamo immediatamente a colmarli con immagini interiori, con pensieri, con dialoghi immaginari. Ma così ci priviamo di poter ascoltare la nostra angoscia: da dove nasce; la noia che ci assale: da cosa è motivata; la nostra malinconia: di che cosa è segno. Ci priviamo della possibilità di ascoltare le nostre emozioni. Il vuoto che c’è in noi è anche alveo di un’attesa nascente, di un desiderio che si sta facendo strada. Ha qualcosa da dirci. Occorre ascoltarlo. La solitudine ci pone di fronte a una dimensione interiore forse problematica ma senza rimuoverla, senza anestetizzarla, senza fuggirla. La noia è un senso di disgusto, di tedio di vivere, dovuto alla reale o presunta assenza di stimoli interessanti, alla ripetizione monotona degli stessi eventi, all’assenza di motivazioni interiori, al non gusto nei rapporti. È una forma di rimprovero, la noia, rivolto agli oggetti, per essere troppo spenti, smorti, sempre uguali; e rivolta agli altri esseri umani, per essere scialbi, non interessanti, banali, superficiali. Tuttavia, queste connotazioni negative della noia, non sono le uniche.

 

Potremmo dire che la noia è il momento negativo delle grandi domande: Perché vivere? Perché agire? Chi sono? Che senso ha il mio esserci? L’accidia, questa atonia dell’anima su cui hanno molto riflettuto i padri monastici, è anche una forma di lucidità sulla vanità del vivere, o almeno di tanta parte di ciò che costituisce il quotidiano dell’esistenza. La noia può essere un grande momento di verità, permette momenti di pausa, di riflessione, di lucidità, di pensiero propri e non assunti dall’esterno. Sappiamo che Einstein sviluppò la teoria della relatività mentre era in uno stato d’animo particolarmente annoiato e stava sognando ad occhi aperti. La psicanalista Francoise Dolto nel suo libro Solitudine felice ha sostenuto con vigore quanto sia importante, nell’educazione del bambino, lasciargli momenti di solitudine, in cui non fa niente, in cui sta solo e in disparte. Si tratta di rivalutare le cosiddette pulsioni passive. Fantasticare, stare senza fare nulla, stare in disparte, osservare, guardare, stare con le mani in mano, sono comportamenti importanti e fecondi per il bambino, che non vanno stigmatizzati o rimproverati.

 

La solitudine dei bambini non deve essere malvista dalle persone che essi amano e prendono come maestri di vita, i quali invece tendono a dire che non è bene restare soli, che bisogna stare con gli altri. La solitudine può arricchire molto se non è provata come senso di isolamento, come senso di rifiuto e di indegnità di stare in mezzo agli altri. È una solitudine interiore: in apparenza non si dà nulla agli altri, si vive sostenuti dal moto altrui e rispettati nel ripiegamento interiore`.

 

Prosegue la Dolto: «Esiste una solitudine che arricchisce e struttura l’essere umano per tutta la vita».

 

 

 

Solitudine e «otium» nell’antichità

 

Il binomio «solitudine - otium» è ampiamente attestato nell’antichità classica. Un passo del De officiis di Cicerone dice: Marco, figlio mio: di Publio Scipione, che per primo ebbe il soprannome di Africano, Catone, che era più o meno suo coetaneo, racconta che era solito dire che egli non era mai meno inoperoso di quando era inoperoso, né meno solo di quando era solo). Espressione davvero splendida e degna di un uomo grande e sapiente: essa dice che anche nel tempo libero (in otio) pensava agli affari pubblici (de negotiis) e nella solitudine (in solitudine) parlava con se stesso, così che non era mai inoperoso e non sentiva il bisogno di qualcuno con cui conversare. In tal modo, inoperosità e solitudine (otium et solitudo), queste due cose che intorpidiscono gli altri, lui invece lo stimolavano.

 

Ovviamente, il significato di otium e di otiosus non ha qui nulla di negativo, anzi, indica il tempo del ritiro, il tempo dedicato allo studio, al pensare, al riflettere, all’attività spirituale. Ambrogio di Milano opererà una rifondazione biblico-cristiana di questa coppia terminologica: Scipione non fu il primo a comprendere di non essere solo, quando era solo (solus non esse cum solus esset), e di non essere mai meno inoperoso, come quando era inoperoso (nec minus otiosus, cum otiosus esset). Prima di lui ne fu consapevole Mosè, che quando taceva gridava; quando era inattivo (otiosus), combatteva [...] Mosè, dunque, nel silenzio parlava (in silentio loquebatur) e nella sua inattività agiva (in otio operabatur).

 

Anzi, il vescovo di Milano applicò a se stesso l’espressione ciceroniana: «Infatti, non sono mai meno solo di quando sembra che io sia solo né meno inoperoso di quando sembra che io sia inoperoso» (Numquam enim minus solus sum, quam cum solus esse videor, nec minus otiosus, quam com otiosus). Silenzio, solitudine, tranquillità erano considerati da Ambrogio elementi di fecondità e di efficacia anche nell’esercizio del suo ministero episcopale. La tradizione classica conosce anche il binomio otium - secessus. Il ritiro (secessus), lo stare in disparte, favorisce l’attività spirituale e intellettuale.

 

La nozione di otium combina dunque in sé le dimensioni della solitudine e dell’inattività. Ma soprattutto mostra che la solitudine è relazionale e che l’inattività è operosa. Ovvero introduce alla vita interiore, e, in particolare, a quella dimensione di paradosso, anzi di ossimoro, che è la condizione della fecondità dell’agire e dell’essere dell’uomo nel mondo. Di fronte alla difficoltà di vivere la solitudine e di stare senza fare niente occorre pertanto, credo, riscoprire l’antica e sempre nuova virtù dell’otium.

 

 

 

Riscoperta dell’«otium»

 

La mia proposta è di osare l’inattuale, di rendere attuale l’inattuale osandolo. Abbiamo bisogno di otium. Una delle forme con cui oggi la solitudine è combattuta e rimossa è l’ipertrofia della comunicazione, l’idolatria della comunicazione.

 

Recita un passo di Thomas Stearns Eliot: Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione?’.

 

Vita, sapienza, conoscenza, informazione. Se partiamo dal fondo, dall’informazione, le parole di Eliot disegnano un climax. E ci parlano di una perdita di cui noi oggi facciamo esperienza. Una perdita vitale, di vita sensata. Si può perdere la vita vivendo. E oggi ci troviamo spesso disorientati, disarcionati, smarriti.

 

Nell’attuale contesto di idolatria della comunicazione, siamo sopraffatti da troppa informazione, che non sappiamo elaborare. Occorrerebbe un movimento di presa di distanza da sé. È un movimento di resistenza individuale, un atto di sovversione solitaria: Bisogna imparare a prendere le distanze da se stessi, a sapersi oggettivare, a sapersi accettare. Bisognerebbe anche saper meditare e riflettere, in modo da non subire la pioggia di informazioni che ci piomba addosso, sopraffatta, a sua volta, da un’analoga pioggia l’indomani e così via senza tregua, cosa che non ci permette di meditare sugli avvenimenti che si presentano giorno per giorno e non ci consente di contestualizzarli, di localizzarli. Riflettere vuol dire, dopo aver contestualizzato, provare a comprendere, a vedere quale può essere il significato, quali le prospettive.

 

Questo movimento si oppone a quello dell’omologazione che è tipico delle società di massa in cui l’individuo è cancellato nella sua singolarità. L’uccisione della solitudine è data dalla creazione di persone identiche le une alle altre, che hanno importanza non per se stesse, ma per la funzione che svolgono e che la tecnica chiede loro. Sono uomini immatricolati e conformi a tutti gli altri.

 

La conoscenza è di livello superiore all’informazione. Suppone che ci sia stata riflessione e meditazione, una rielaborazione razionale delle informazioni, suppone che i dati siano stati collegati gli uni agli altri, letti da svariati punti di vista, intrecciati fino a dare senso, a costruire un significato, a scoprire motivazioni profonde. Questo lavoro di conoscenza richiede capacità di solitudine, di abitare con se stessi. Richiede il coraggio di fare del pensare un lavoro astenendosi da altre attività.

 

Infine, la sapienza ha a che fare con la vita. Ha detto più di venti anni fa Pierre Harmel, un uomo politico che fu ministro dell’istruzione in Belgio: «Ci accorgiamo di aver puntato tutto sull’economico e non abbastanza sulla preparazione alla vita. È paradossale che i valori vitali siano sempre più ridotti nell’educazione». Da allora le cose sono peggiorate di molto. Non è esattamente in cultura, in formazione e in ricerca che i governi nazionali investono, anzi sono spesso i primi ambiti in cui avvengono i tagli di sovvenzioni nella crisi che si sta vivendo. E rischiamo così di divenire ancor più analfabeti del mondo, dell’uomo e della vita, e di trovarci ancor più smarriti e senza bussola per muoverci e capire qualcosa del mondo, della storia, di noi stessi. Vi è chi ha proposto di inserire nelle scuole l’ora di solitudine, per insegnare ai ragazzi a stare con se stessi. Ma appunto, come già dicevamo, abbiamo dimenticato che cosa sia la “scuola”.

 

L’idea del recupero e della valorizzazione della nozione di otium è appunto volta a recuperare una sapienza che oggi appare smarrita. Come già scriveva Agostino, «Il mio otium (tempo libero) non è destinato a coltivare la pigrizia, ma a raggiungere la sapienza». E Agostino diceva questo mettendo a frutto la lezione biblica: «La sapienza dello scriba si deve al suo tempo libero, e chi non si disperde nell’azione diventa sapiente» (Sir 38,25). Avere tempo, darsi tempo, per poter abitare con se stessi. Altrimenti il rischio della nostra incapacità di solitudine è che i nostri corpi diventano dei non-luoghi, dei luoghi non abitati, dei luoghi senz’anima, dei luoghi solo di passaggio di emozioni e flash, di suoni e rumori, senza capo né coda.

 

 

 

«Otium», «otiositas» e «negotium»

 

Nell’antichità classica il termine otium è ambivalente, a volte negativo (pigrizia, inerzia, acedia), a volte positivo (tempo libero per occupazioni intellettuali e spirituali, vita contemplativa). Poi l’accezione negativa è stata assorbita dal vocabolo otiositas. La dimensione negativa dell’ozio è sempre stata presente nella tradizione culturale e cristiana occidentale. L’ozio genera la negligenza, l’incuria, la non perseveranza, l’incapacità di sopportare la fatica, la sonnolenza, una certa tendenza al vagabondaggio e all’instabilità, la lentezza, l’abitudine di rinviare a più tardi ciò che si deve fare.

 

Tuttavia, come abbiamo accennato sopra, nell’antichità classica otium aveva un altro significato. Il concetto di otium si riferiva a una pratica assodata di cui Cicerone parla nei termini di cum dignitate otium. L’otiúm era il tempo che si passava lontano dalla vita pubblica, dall’azione politica, che per un civis romanus era un dovere fondamentale. L’otiúm ci fa riprendere familiarità con la nozione di ritiro. L’otium era il tempo dedicato alla lettura, allo studio, alla vita intellettuale, alla vita contemplativa. L’idea di “ozi letterari” trova lì la sua origine. Il Medio Evo fa propria questa concezione dell’otium e la trasforma, sviluppandola in senso escatologico e religioso: non si tratta più soltanto di pace interiore, di pacificazione dei sensi, della ricerca e della contemplazione del vero, ma anche della ricerca di una intimità con Dio. L’idea di otium, l’espressione vacare Deo (avere tempo libero per Dio), diventano elementi tipici dell’esperienza monastica, esperienza che sviluppa particolarmente la dimensione solitaria, e che tuttavia non crea una vita di privilegiati, ma fonde otium con attività lavorativa intensa e quotidiana.

 

In sintesi, 1’otium, se è virtuoso, deve allontanare da sé ogni forma di otiositas. Senza la fatica del lavoro manuale e intellettuale, infatti, il monaco non potrebbe pervenire a quel distacco dal mondo, dai propri pensieri e desideri che gli permette di raggiungere la pace interiore e dunque la contemplazione di Dio. Insomma, l’otium è un bene nella misura in cui prevede lavoro, fatica, sforzo e applicazione. Un otium negotiosum (un ozio laborioso, una inattività operosa) come amano ripetere i monaci, e anche negotiosissimum (laboriosissimo), come specifica san Bernardo. L’otium è la possibilità di entrare in accordo e in amicizia con il tempo con tutta la propria interiorità, con tutto se stesso. L’otium è la possibilità della solitudine positiva, della solitudine dell’anima. Può essere interessante notare che l’etimologia (incerta, in verità) di otiúm rinvia ad autium, che deriva da av-eo, «star bene» (cfr. il saluto latino antico ave). E forse, la ripresa dell’atteggiamento spirituale dell’otium può far del bene anche a noi oggi che viviamo un rapporto conflittuale con il tempo e frenetico con il fare. Ma qui si pone la domanda: sappiamo stare senza fare niente? Sappiamo abitare l’atteggiamento positivo, non neghittoso, ma efficace, del non-fare?

 

 

 

La virtù dell’«otium»

 

Nel 1880 Paul Lafargue, genero di Karl Marx, pubblicava un pamphlet, Le droit à la paresse", in cui criticava aspramente il «diritto al lavoro», le condizioni e gli ambienti del lavoro (le officine considerate come prigioni), gli orari di lavoro abominevoli per uomini, donne e bambini, lo stesso proletariato che si era lasciato pervertire dal dogma del lavoro, ecc. Due anni più tardi, nel 1882, Nietzsche scriveva: Il furibondo lavoro senza respiro [degli americani] - il vizio peculiare del nuovo mondo-comincia già per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità. Ci si vergogna già oggi del riposo, il lungo meditare crea quasi rimorsi di coscienza. Si pensa con l’orologio alla mano, come si mangia a mezzogiorno appuntando l’occhio sul bollettino di Borsa - si vive come uno che continuamente «potrebbe farsi sfuggire» qualche cosa. «Meglio fare una qualsiasi cosa che nulla» - anche questo principio è una regola per dare il colpo di grazia a ogni educazione e ogni gusto superiore [...]. Oh, questo crescente venire in sospetto di ogni gioia! Il lavoro ha sempre di più dalla sua tutta la buona coscienza: l’inclinazione alla gioia si chiama già «bisogno di ricreazione» e comincia a vergognarsi di se stessa. «È un dovere verso la nostra salute» si dice quando si è sorpresi durante una gita in campagna. Anzi, si potrebbe ben presto andare così lontano da non cedere a una inclinazione alla vita contemplativa (vale a dire all’andare a passeggio, con pensieri e amici), senza disprezzare se stessi e senza cattiva coscienza.

 

Il «vizio», secondo Nietzsche, non è l’otium, ma l’ideologia del lavoro frenetico e l’assillo del fare per sentirsi vivi.

 

 

 

Il necessario lavoro interiore

 

La fatica dell’otiúm è nel dedicarsi al lavoro più difficile e più necessario dell’uomo: conoscere se stesso. Un’esistenza che dimentichi che si inizia a vivere nell’interiorità è una vita non tanto estroversa, quanto inconsapevole, incosciente, scissa. L’otium ci consentirebbe di approfondire la nozione di vita interiore e soprattutto di svilupparne la pratica. Pratica che conosce molti movimenti che andrebbero approfonditi e analizzati (fare attenzione, vigilare, interrogarsi, pensare, discernere, decidere, ecc.), ma qui mi limito a elencare i tre atteggiamenti di fondo che si presentano all’uomo non appena decide di entrare nella vita interiore, o, se vogliamo, di dar spazio all’otium nella sua esistenza. Sono i movimenti contenuti in un apoftegma di Arsenio, un padre del deserto: «Fuggi, fa’ silenzio, sii tranquillo: da queste radici nasce la possibilità di non peccare» (Fuge, tace, quiesce.- haec sunt radices non peccandi ). Ovvero, cerca consapevolmente la solitudine, vivi il silenzio come azione interiore, persegui la pace interiore. Si tratta di azioni faticose, che esigono uno sforzo, che convogliano le energie interiori e spirituali della persona per un fine preciso, e che consentono all’uomo di uscire dall’attitudine “viziosa”, cioè dalle cattive abitudini, dalla tirannia delle abitudini che ci agiscono e ci tolgono libertà e responsabilità. L’abitudine, scrive Seneca, «immobilizza le cose» e paralizza anche la persona. L’esito di questa ascesi, ovvero, di questa scelta consapevole dell’essenziale, è l’accresciuto senso di integrità personale.

 

 

 

Il tempo ritrovato

 

La pratica dell’otium si oppone tanto alla perdita di tempo quanto alla fretta. Se l’accidioso è colui che non vuole essere se stesso, non aderisce a se stesso, l’otium nasce dall’adesione dell’uomo a se stesso e si nutre di questo sentimento di integrità, di adesione al reale e di amicizia con il tempo. «L’otium è una configurazione di quel silenzioso raccoglimento che è un presupposto necessario alla percezione della realtà». Nell’otium, quel tempo che ci sfugge costantemente, che ci è rubato (da chi?), che non abbiamo (ma si può mai «avere» il tempo?), ci è improvvisamente restituito nella sua dimensione di dimora, di casa in cui abitiamo. Abbiamo bisogno di un’ecologia del tempo, non solo dello spazio. O, per dirla con Paul Celan: «È tempo che sia tempo». A una concezione e soprattutto una pratica disumanizzante del tempo come produttivo perché votato al profitto, all’esperienza della frammentazione del tempo in tempi successivi e incalzanti, all’imperativo della velocità, allo slogan dell’ottimizzazione dei tempi, l’otium risponde abitando il tempo. E ben sapendo che abitare il tempo significa anche abitare il corpo, che è il libro del tempo, e significa abitare con se stessi, facendo della pace con se stessi la base della costruzione della comunità. Nell’otiúm l’esperienza del tempo è qualitativa più che quantitativa. L’otiúm integra nell’esperienza temporale anche l’attesa, la pazienza, il non intervento, la capacità di assecondare i movimenti e i tempi di maturazione e crescita degli eventi e degli altri. Nell’otium il tempo non è solo finalizzato al lavoro e alla produttività, ma diviene elemento che lavora esso stesso l’uomo e lo trasforma.

 

 

 

Conclusione

 

Nulla è tanto insopportabile all’uomo quanto essere in completo riposo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza divertimenti, senza occupazioni. Sente allora il suo nulla, la sua solitudine, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente emergeranno dal fondo della sua anima la noia, il pessimismo, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione.

 

Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: l’incapacità di starsene tranquilli, in una camera.

 

Alla felicità umana, invece, e alla sensatezza e sanità della vita umana, contribuisce il recupero della dimensione dell’otium che abbiamo cercato di delineare. Se il vizio infatti è una patologia, una malattia dell’anima, certamente noi oggi soffriamo di rapporti squilibrati e patologici con il tempo, con il “fare”, con nei stessi, con gli altri. Siamo costantemente proiettati fuori di noi stessi. Viviamo fuori di noi stessi, e abbiamo bisogno di rientrare in noi stessi per guarire, per ritrovare la via di casa, per riprendere contatto con noi stessi. Abbiamo bisogno dell’otium per ritrovare felicità e senso, per vivere una vita contenta. Non si tratta soltanto di una indicazione a uso e consumo strettamente individuale, perfino intimistico, ma con una importante valenza sociale e comunitaria. Infatti, «quando siamo felici disseminiamo il mondo di anonimi doni che rimangono sconosciuti anche a noi stessi o, quando vengono rivelati, sorprendono il benefattore più di chiunque altro».