LA MADRE DELLA PAROLA E IL SUO CANTO
Lectio divina sul Magnificat
Elena Bosetti - biblista


Premessa
La scelta del Magnificat per questa nostra lectio non è casuale né senza sfida. Questo cantico vibra nella quotidiana Liturgia delle ore: al Vespro nella liturgia romana, al Mattutino nella tradizione liturgica bizantina, armena e maronita.

Trattandosi di un testo quanto mai familiare, occorre superare il livello del già noto, quella sorta di eccessiva familiarità che l’abitudine della recita quotidiana può ingenerare, per lasciarci nuovamente sorprendere da qualche scintilla di questa divina parola. Un testo poetico interpella non solo per quello che dice, ma per come lo dice. In poesia, più che in ogni altro ambito, è la forma che porta il contenuto. E primieramente non è l’intelletto che la parola poetica intende raggiungere, ma l’intera persona con le sue emozioni e sentimenti.
Occorre dunque sintonizzare l’animo, mettersi in ascolto profondo.
Cosa non facile come potrebbe sembrare, perché un testo poetico nato in tempi lontani – e il Magnificat vanta una storia bimillenaria – è presumibilmente lontano anche per linguaggio e forma letteraria. Ragione in più per ascoltare questo cantico con amorosa attenzione, come fosse la prima volta. Lo chiediamo umilmente alla Madre del Magnificat:

Vergine Maria, madre della Parola,
facci entrare nei sentimenti
che sono all’origine del tuo Magnificat.
Mettici in sintonia con il tuo canto
e insegnaci a cogliere
nella trama feriale della storia
l’azione dello Spirito,
la grande misericordia del Padre
in Cristo Gesù, tuo figlio
e Signore nostro. Amen.

Articolo il mio intervento in tre momenti.

1. Faremo anzitutto la lectio del testo poetico nel suo contesto, cercando di cogliere i vari collegamenti con la narrazione; nel racconto lucano il Magnificat costituisce il “gioiello” della visita di Maria a Elisabetta. Osserveremo l’architettura poetica del Magnificat e ci soffermeremo su alcune parole chiave.
2. Passeremo quindi alla meditatio, lasciando spazio a varie risonanze bibliche.
3. Nel terzo momento entreremo in un dialogo più diretto con la Parola per lasciarci guidare dalla contemplatio all’actio, dalla contemplazione alla vita: come apprendere da Maria l’arte di interrogare, custodire e comunicare la Parola? Cosa significa e comporta evangelizzare nella prospettiva del Magnificat?

I. Il Magnificat nel suo contesto: gioiello della visita di Maria a Elisabetta

Dobbiamo all’evangelista Luca questo cantico che insieme al Benedictus, al Gloria e al Nunc dimittis scandiscono la giornata orante della Chiesa. Luca è particolarmente sensibile alla dimensione liturgica. La bella notizia vede coinvolto il cielo, è portata dagli angeli (Gabriele) e suscita movimento e canto sulla terra. E non è casuale che la prima a cantare sia proprio lei, la Vergine Madre.

È importante rendersi conto del contesto. Anche per il Magnificat vale infatti ciò che è regola primaria di ogni buona lectio: occorre inquadrare il testo nel contesto per cogliere i legami che intrecciano l’insieme. Il Magnificat è indubbiamente una perla, ma non a se stante. Questa splendida perla brilla in una collana, brilla nel vivo del racconto: è il gioiello della visita di Maria a Elisabetta (Lc 1,39‐56).

La simbolica del viaggio
Il racconto inizia in 1,39 con Maria che si alza e si mette in cammino per raggiungere la casa di Zaccaria e si conclude al v. 56 con la Vergine che riprende il cammino per far ritorno a casa sua. La simbolica del viaggio è particolarmente cara all’evangelista Luca. È azzardato cogliere in questo viaggio della Madre del Signore un’anticipazione del cammino di Gesù? Il verbo poreuomai che qui descrive la Vergine verrà impiegato più volte per indicare il grande viaggio di Gesù a Gerusalemme (cfr Lc 9,51; 10,38).

Possiamo dire che l’accoglienza della Parola “attiva” profondamente Maria, la mette in piedi (anastasa, il verbo della risurrezione!) e in cammino. La serva del Signore si fa prontamente serva dell’umanità. Le parole dell’angelo la sollecitano a prendere iniziativa e mettersi in viaggio. Dio parla attraverso i segni, ed eccola pronta ‐ come il credente Abramo ‐ a seguire la traccia dei segni. E il segno indicato dall’angelo Gabriele porta sulla montagna di Giuda, ad Ain Karem secondo la tradizione, una decina di kilometri da Gerusalemme.

L’ingresso e il saluto
Maria entra nella casa di Zaccaria, il sacerdote, ma sorprendentemente non è a lui che rivolge il saluto bensì è lei: “e salutò Elisabetta” (v. 40). Eccole di fronte le due donne graziate dal Signore, la giovane e l’anziana. Chaire, rallegrati Elisabetta! Rallegrati perché il tuo nome (Elisabet significa “Dio ha giurato”) ha trovato senso e compimento. Dio è fedele alla sua alleanza!

Mi colpisce un dettaglio. Luca racconta che dopo il ritorno di Zaccaria dal tempio, Elisabetta concepì un figlio e – cosa degna di nota – “si tenne nascosta per cinque mesi” (Lc 1,24). Perché mai Elisabetta “liberata dalla vergogna” della sterilità si nasconde? Perché questo sottrarsi agli occhi della gente e dei curiosi? Per la “vergogna” di restare incinta in tarda età? Se così fosse, non sarebbe più logico nascondersi dal quinto mese in poi, quando il segno della gestazione si fa sempre più palese?
Evidentemente la ragione del nascondimento di Elisabetta non è la vergogna, ma la contemplazione. Quando Dio parla conviene che l’uomo taccia (Zaccaria resta muto); quando Dio parla conviene non dissolvere in chiacchiere le sue meraviglie… Elisabetta non cede alla tentazione della chiacchiera, si ritrae dagli sguardi della gente per restare totalmente sotto lo sguardo di Dio. Dunque un tenersi nascosta per contemplare. Ma non resta muta, anzi precede Maria nella confessio laudis. Diceva infatti: «Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini» (Lc 1,25).

Maria saluta Elisabetta giunta ormai al sesto mese della sua gravidanza e l’effetto delle sue parole è straordinario: il piccolo Giovanni balza di gioia nel grembo di sua madre.
Il verbo skirtaō esprime un movimento di esultanza; evoca l’atteggiamento di Davide che salta di gioia davanti all’arca del Signore (2Sam 6,2‐11).
Nel suo vecchio grembo Elisabetta, come già Sara, sperimenta il palpito vibrante della vita, quasi una danza, mentre lei stessa trascinata dal frutto del suo grembo e “ricolma di Spirito Santo” riecheggia lo stupore di Davide: “a che debbo che la madre del mio Signore venga a me?”

Nella casa di Zaccaria, anticipazione del Cenacolo (At 2,1‐4), tutti sono pieni di Spirito santo e infine anche il muto sacerdote scioglierà la lingua in cantico: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo…» (Lc 1,68). È sempre lo Spirito che suscita fecondità, profezia e canto.

L’elogio profetico di Elisabetta
Quella di Elisabetta è la prima voce profetica del Nuovo Testamento (benché non le sia attribuito il titolo di profetessa). Sale forte la sua voce, come nelle acclamazioni liturgiche. È un’esplosione di gioia e di profezia che proclama “benedetta” (euloghēmenē) e “beata/felice” (makaria) la vergine madre del Messia:

Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!
A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?
Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi,
il bambino è sobbalzato di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell'adempimento
delle parole del Signore (vv. 42‐45).

Non abbiamo forse qui un magnifico esempio di meditazione colma di stupore? Nella luce dello Spirito Elisabetta intuisce il segreto di Maria: l’acclama infatti madre del “mio” Signore, di quel Kyrios che lei stessa riconosce e accoglie nella fede.

Elisabetta va dritta all’essenziale, scopre per prima che la vera grandezza di Maria sta proprio nella sua fede, nel pieno affidarsi alla Parola: “felice la credente” (v. 45). È la fede la chiave interpretativa della vera grandezza di Maria, che come dirà Agostino concepì prima nel cuore e poi nella carne (Sermone 196,1).

L’architettura poetica del Magnificat
Sotto il profilo narrativo il Magnificat costituisce la risposta della Vergine all’elogio tessuto da Elisabetta. Ma il cantico trascende la situazione, lasciando per così dire nell’ombra Elisabetta, la casa e quant’altro. Maria si rivolge direttamente a Dio, è tutta protesa nel far grande Colui che ha fatto per lei meraviglie.

Notiamo un duplice movimento nel Magnificat: ascendente e orizzontale.
Il movimento ascendente ritrae la Vergine in rapporto al suo Signore e il movimento orizzontale la colloca dentro il suo popolo. Si potrebbe parlare di due strofe, ma collegate in modo tale che la seconda appare come prolungamento della prima.
Infatti soltanto nella prima strofa troviamo le “ragioni” del cantico, espresse da duplice  “perché”:“perché ha guardato” (v. 48) ; “perché ha fatto per me” (v. 49). Non si da invece alcuna congiunzione nel passaggio dalla prima alla seconda strofa. E ciò non è casuale: l’assenza di congiunzione evidenzia maggiormente il collegamento tra l’evento posto in primo piano (la maternità di Maria) e l’orizzonte storico salvifico entro cui si dispiega la divina misericordia (di generazione in generazione).

Le forme verbali, i pronomi e la concatenazione complessiva, concordano nell’evidenziare che il Magnificat intreccia due motivi fondamentali: la lode per la situazione personale di Maria (vv. 46‐49) e il passaggio a una situazione più ampia, con esplicito riferimento a Israele (vv. 50‐55).

Al centro della scena
All’inizio del Cantico l’io di Maria si esprime in terza persona, lasciando parlare l’anima e lo spirito. Questo modo perifrastico di esprimersi da una parte sottolinea con una certa intensità e solennità i propri sentimenti, dall’altra costituisce una forma indiretta di rivolgersi a Dio, in cui la persona dell’orante quasi scompare, lasciando il Signore al centro della scena, posizione che egli occuperà fino al termine del canto.
Io preferisco dire che al centro della scena c’è Maria, ma totalmente de‐centrata, tutta protesa nel magnificare il Signore. L’esultanza di Maria nasce dal profondo di sé, dalla sua anima (psiche), dal suo spirito (pneuma). Quello spirito che conosce i profondi segreti della persona (1Ts 4,23; 1Cor 2,11) e che prorompe in giubilo come accadrà per Gesù (Lc 10,22).
Maria esulta in Dio suo Salvatore, fa grande l’unico Grande, il Signore.
All’origine del movimento ascendente del Magnificat vi è però un movimento discendente che precede e provoca il giubilo: Maria è consapevole che Dio ha “guardato giù”, che lo sguardo divino si è abbassato sull’umiltà, sulla “bassezza” (tapeinosis) della sua serva. Sale in canto la vita di Maria perché lo sguardo del Signore è disceso e l’ha innalzata.

Maria ha consapevolezza di essere al centro dell’attenzione di Dio e, conseguentemente, dell'intera umanità: “tutte le generazioni mi diranno beata”. Ma il suo stare al centro è totalmente decentrato. Scrive Adrienne Von Speyr che Maria “ha piena cognizione di essere l’Eletta e tuttavia persiste nell’atteggiamento della più completa umiltà. Non potrebbe sopraggiungerle il pensiero di attribuirsi una cosa qualsiasi tra quelle ricevute da Dio. … Questa coesione tra perfetta consapevolezza e perfetta umiltà non possono che contraddistinguere Maria come la sola Madre del Signore. Tuttavia ella non conserva per sé il dono del Figlio, ma lo trasmette elargendolo alla chiesa e a coloro che sono chiamati, sia pure in scarsa analogia con la sua figura, a proseguire qualcosa del suo compito. Nessuno però, al pari suo, raggiungerà questo perfetto equilibrio tra umiltà e consapevolezza. Ci saranno santi, come Teresa d’Avila, che avranno una maggiore consapevolezza del ruolo che devono rappresentare e altri, come Teresa di Lisieux, che meglio personificano l’umiltà cui rimane celata la piena consapevolezza. In Maria però si rafforzano e si accrescono scambievolmente: è umile perché consapevole, consapevole perché umile”.

Tra gli anawim, i poveri del Signore.
Ed ecco che la scena si allarga. Mentre le generazioni umane si alzano a proclamarla beata, Maria sembra quasi scomparire all'interno di una moltitudine che si muove nella stessa sua direzione. Sono i timorati del Signore, sui quali si dispiega ‐ come su di lei ‐ la misericordia dell’Onnipotente. Schiere di piccoli e di poveri, un popolo di umili.
La scena si popola ulteriormente. Sul palcoscenico della storia, da un lato stanno i superbi, i potenti, i ricchi. Sul lato opposto stanno gli umili, gli affamati e indigenti. Coloro che temono il solo Potente e si fidano di lui. Le grandi opere, compiute dal Signore a favore della sua serva, innalzata dalla tapeinosis (“bassezza”, nel senso di povertà e umiltà) si ripetono con forza impressionante a vantaggio di tutti i tapeinoi, i poveri e gli umili della terra, vera discendenza di Abramo. Il canto di Maria è ormai il loro canto. Si loda e si danza insieme, come sulle rive del Mar Rosso.
In effetti il Magnificat riecheggia il canto di un’altra Maria, la sorella di Aronne e di Mosè, la profetessa dell’Esodo, che con cembali e a ritmo di danza insegnò alle figlie d’Israele l’indimenticabile ritornello: “Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato!” (Es 15,21).
Il Magnificat è come un ponte tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra Israele e la Chiesa. Maria è l’eccelsa figlia di Sion (LG 55), al primo posto tra la schiera degli anawim, i poveri che puntano tutto sul Signore. E così la vede anche Benedetto XVI nella sua enciclica sulla Speranza: “Santa Maria, tu appartenevi a quelle anime umili e grandi in Israele che, come Simeone, aspettavano “il conforto d’Israele” (Lc 2,25) e attendevano, come Anna, “la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). Tu vivevi in intimo contatto con le Sacre Scritture di Israele che parlavano della speranza – della promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza” (Spe Salvi, 50).

II. Una sinfonia di lode e di stupore
Passiamo dalla lectio alla meditatio lasciandoci aiutare da alcune risonanze bibliche. Come figlia di Israele Maria è abituata a rivolgersi a Dio con le parole dei Salmi. “Nasciamo con questo libro nelle viscere”, confessa A. Chouraqui. “Più ancora che un libro, un essere vivente che parla – che ti parla –, che soffre, che geme e che muore, che risorge e che canta, alle soglie dell’eternità, e ti prende e ti trasporta, con i secoli dei secoli, dall’inizio alla fine”.
Trovo preziosa questa testimonianza ebraica. Aiuta a comprendere meglio anche il cantico di Maria, che si muove liberamente sullo sfondo dell’intera Scrittura e presenta numerosi contatti soprattutto con i Salmi di lode. Magnificat è la prima parola del suo canto (megalynei in greco) e questo verbo di giubilo lo ritroviamo in diversi Salmi:

Magnificate con me il Signore/esaltiamo insieme il suo nome (Sal 34/33,4).
Loderò il nome di Dio con il canto/ lo magnificherò con azione di grazie (Sal 69/68,31).
Esulti e gioisca chi ama la giustizia, dica sempre: «Sia magnificato il Signore!» (Sal 35/34,27).

“Ho sperato, ho sperato nel Signore – dice l’orante del Sal 40/39 – ed egli su di me si è chinato … Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo … Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano, quelli che bramano la tua salvezza dicano sempre: «Sia magnificato il Signore!» (vv. 2.4.17). Non è solo questione di contatto lessicale, ma di motivo tematico e liturgico: si tratta di celebrare le “grandi cose” che il Signore ha compiuto a favore del suo popolo. Ci sembrava di sognare – esclama il salmista – ci ha colmati di gioia, ha riempito la nostra bocca di sorriso... Non solo. Il ritorno degli esuli a Sion riempie di stupore anche i popoli pagani:
Allora si diceva tra le genti:«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia (Sal 126/125,1‐3).
È una grane sinfonia che coinvolge non solo Israele ma anche i goyim, le genti, i popoli tutti che possono contemplare le meraviglie che il Signore ha fatto. Molteplici sono gli echi del Salterio nel Magnificat che però non è semplicemente un centone di testi antichi, ma un canto nuovo perché inaudito è l’evento che celebra. In esso trova risonanza anche il cantico di Anna, la madre del profeta Samuele, che dà voce al sorprendente capovolgimento di situazione che Dio opera:
Il mio cuore esulta nel Signore:la mia forza s’innalza grazie al mio Dio …
Non c’è santo come il Signore …
I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati.
La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita.
Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire …
Il Signore giudicherà le estremità della terra; darà forza al suo re,
innalzerà la potenza del suo consacrato (1Sam 2,1‐10).

In continuità con i poveri, gli umili e le donne che l’hanno preceduta nel canto, Maria fa grande il Signore, esalta la sua misericordia che abbraccia tutte le generazioni e mai abbandona Israele.

Una simbolica menorah
Ma torniamo al cantico di Maria. Vorrei notare la rilevanza del verbo poieo che compare in entrambe le strofe del Magnificat (sempre all’aoristo: epoiesen, “ha fatto”). Al v. 49 qualifica l’azione divina in rapporto alla Vergine: “ha fatto per me grandi cose”, mentre all’inizio del v. 50, senza collegamento e in posizione enfatica, introduce il settenario delle azioni salvifiche: le opere meravigliose che il Signore ha compiuto a favore del suo popolo:
• ha fatto prodezze
• ha disperso i superbi
• ha deposto i potenti
• ha esaltato gli umili
• ha colmato di beni gli affamati
• ha rimandato vuoti i ricchi
• ha soccorso Israele

Sette verbi/azioni indicativi di un agire salvifico pieno, totale. Il numero 7 nella Bibbia è infatti simbolo di pienezza e totalità. Prendendo come immagine il candelabro a sette braccia si potrebbe dire che questa seconda strofa del Magnificat costituisce una sorta di luminosissima divina menorah!

L’espressione iniziale: “ha fatto prodezze con il suo braccio”, è chiaramente evocatrice dell’esodo, quando Yhwh manifestò la sua potenza contro l'arrogante prepotenza del Faraone. Inoltre, l’ultimo verbo della serie menziona Israele, oggetto di affettuosa misericordia da parte di Dio e da lui soccorso per fedeltà ad Abramo e alla promessa.

L’orizzonte è quindi tracciato con nitidezza. Il Magnificat riecheggia il canto di Mirjam la profetessa dell’esodo (l’unica Maria di cui parli l’AT) che con cembali e a ritmo di danza guida il coro delle figlie d’Israele: “Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze” (v.20). È lei che insegna il “ritornello”, e dunque il leitmotiv del canto di vittoria: “Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!” (v. 21).

C’è da sospettare che Mirjam sia l’autrice dell’intero canto. In effetti l’indimenticabile ritornello che lei insegna alle donne israeliane coincide con l’ouverture del cantico posto in bocca a Mosè (15,1) e sotto il profilo letterario “si collega, senza interrompere il filo del racconto, a 14,9, rappresentando così la «risposta» innica (v. 21) all’evento salvifico verificatosi nel Mare dei Giunchi che segna la fine dell’oppressione del popolo in Egitto”.
Miriam svolge indubbiamente un ruolo di mediazione ermeneutica: interpreta il senso dell’evento e intona il canto liberatorio quale risposta del popolo all’azione divina. Sembra nel pieno vigore della giovinezza questa donna che canta e danza con tanto entusiasmo, e invece ha quasi novant’anni! Il suo entusiasmo è contagioso, trascina tutto il corteo femminile nella lode e nella danza. Sul crinale del Nuovo Testamento Maria di Nazareth raccoglie e rilancia questo canto: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,52).
Ma qual è il senso di sette verbi del Magnificat che si esprimono all’aoristo, come azioni compiute nel passato e che tuttavia sembrano avere di mira un futuro che non si vede? In che rapporto stanno con il motivo fondamentale del canto, con i due “perché” riguardanti la situazione personale di Maria?



Il paradigma dell’esodo e la grande promessa
Maria legge l’opera di Dio in lei alla luce delle opere antiche di Dio per il popolo, ma anche, viceversa, vede il futuro del popolo mutuato dall’opera che il Signore ha fatto in lei. Quest’opera non solo corrisponde all’agire passato di Dio e al suo costante comportamento verso gli uomini, ma addirittura costituisce il compimento delle promesse fatte ai padri a favore dei discendenti di Abramo. Non è quindi un’opera qualsiasi, che si inserisce nella scia delle tante, ma il loro compimento e culmine.
Il braccio potente del Signore fa uscire dalla miseria i poveri della terra, come un tempo fece uscire Israele dall’Egitto. La sua opera di liberazione contrasta però con i “potenti” di questo mondo che spesso siedono su un trono di violenza e di oppressione come l’antico Faraone. In questa prospettiva, Maria canta che Dio “ha disperso i superbi, deposto i potenti, rimandato a mani vuote i ricchi”.
Serena Noceti ci ha ricordato che la Scrittura è portatrice di una parola di promessa: “la promessa di Dio sulla storia, sul compimento dell’umanità e della creazione nella pienezza del Regno”. Ebbene, il Magnificat è portatore di questa grande promessa.

In effetti cosa è mai quel cantare di Maria: “i potenti li ha deposti dai troni”? Illusione poetica? Memoria e vivo desiderio che sia così, che Dio faccia finalmente giustizia ai deboli, alle donne e ai poveri della terra? Come tradurre in definitiva questi verbi all’aoristo: con valore di passato o di futuro?
Occorre tener presente l’insieme: da un lato il paradigma dell’esodo serve per leggere l’evento di cui Maria è resa protagonista (la sua maternità); d’altro lato, c’è un fatto decisivo, un evento che ha realizzato lo schema dell’esodo in maniera del tutto sorprendente e radicale: la risurrezione di Gesù. Il Magnificat risente già dell’alleluia pasquale. L’evangelista vi proietta la luce del Risorto, la grande speranza [La sterile che partorisce anticipa per così dire il segno della risurrezione: il suo grembo si apre alla vita. E se ciò vale per Elisabetta (in continuità con le madri d’Israele) che dire di Maria di Nazareth? La Vergine che genera per opera di Spirito santo, è inedito prodigio, novità esclusiva del NT. Meraviglia che Luca abbia colto in tale evento un anticipo di pasqua?].
Il Magnificat anticipa l’alleluia pasquale e risuona come grande speranza per la Chiesa di ogni tempo. La storia della salvezza è coerente. Sappiamo (nella fede) come andrà a finire, perché Dio ha già fatto intendere i suoi gusti, i suoi pensieri. Perciò i credenti possono cantare il futuro con le azioni del passato e affermare che Dio “ha deposto i potenti dai troni” anche se l’ora della detronizzazione non è ancora scoccata … La Chiesa che canta il Magnificat sperimenta a vari livelli ostilità e violenza, prove e persecuzioni. E tuttavia canta, perché la risurrezione di Gesù ha sprigionato vita nuova nella storia degli uomini, ha spalancato i cieli sull’abisso della morte e dell’inferno, ha pronunciato il giudizio irrevocabile di Dio su ciò che merita di avere futuro e di vivere per sempre.

L’importanza ecclesiale del Magnificat è stata recepita fin dalle origini e si prolunga nella Chiesa di ogni tempo che vibra in sintonia con la Madre del Signore. Essa non è sottratta al buio della notte né alla prova della fede. E tuttavia canta perché vede oltre.


III. Alla scuola di Maria, donna del Magnificat
Come apprendere da Maria la capacità di leggere la nostra storia alla luce di Dio, della sua potente azione salvifica? Leggiamo nell’Instrumentum Laboris del Sinodo sulla Parola di Dio: “Già educata alla familiarità con la Parola di Dio nell’esperienza così intensa delle Scritture del popolo cui appartiene, Maria di Nazaret, a partire dall’evento dell’Annunciazione fino alla Croce, anzi fino alla Pentecoste, accoglie nella fede, medita, interiorizza e vive intensamente la Parola” (n.25).
La Vergine santa ci è modello non solo per come ascolta la Parola, ma anche per come la medita e per come vi ritorna costantemente sopra per approfondirne il senso: «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19). Nella cella del cuore, lì dove è la sede più profonda dell’interiorità, Maria s’intrattiene con la Parola, cerca di interpretarla e di comprenderne il senso vitale collegandola (symballousa) con gli eventi della storia sua e di Gesù. Così Maria si fa essa stessa “simbolo” per noi. È splendida icona della Chiesa che mantiene viva la memoria del cuore per cogliere il senso della Parola che si rivela nella storia.

Cosa possiamo imparare alla scuola di Maria? Accenno a tre atteggiamenti (fondamentali per la lectio divina ma anche per la lectio humana): l’ascolto, il dia‐logo e l’amorevole cura della Parola.

• Ascolto. È il primo e fondamentale atteggiamento: “Shema Israel, Ascolta Israele!” (Dt 6,3). Maria è donna dell’ascolto. Dobbiamo sempre nuovamente entrare in religioso ascolto – vedi il proemio della Dei Verbum. Diversamente la Parola non può essere accolta e generare vita.
• Dia‐logo. Proprio perché ascolta, Maria pone domande: è donna critica e interrogante (Lc 1,34; 2,48). Anche noi dobbiamo imparare a interrogare il testo biblico, a porre domande mirate. Occorre entrare in dialogo con la Parola e con la vita.
• Amorevole cura. Maria ci insegna un passo ulteriore, a custodire la Parola nel cuore anche quando non la capiamo. Ruminare la parola, ritornarci sopra in meditazione orante, custodirla amorosamente perché produca frutto come il buon seme nella terra.

Alla scuola di Maria possiamo apprendere l’arte di coniugare nella vita quotidiana logos ethos e pathos. Lo abbiamo potuto notare anche in questa lectio: la Vergine che accoglie la Parola prontamente si alza e si mette in cammino... il logos sollecita l’ethos dell’amore, simbolicamente indicato in quel mettersi in cammino verso la casa di Zaccaria, e il canto che segue da voce al pathos. Il grande pathos di Dio per il suo popolo.

L’ultima propositio del Sinodo sulla Parola di Dio (la 55), dedicata a Maria Mater Dei et Mater fidei, afferma che “la Chiesa del Nuovo Testamento vive là dove la Parola incarnata viene accolta, amata e servita in piena disponibilità allo Spirito Santo” e che “l’attenzione devota e amorosa alla figura di Maria come modello e archetipo della fede della Chiesa, è di importanza capitale per operare anche oggi un concreto cambiamento di paradigma nel rapporto della Chiesa con la Parola, tanto nell’atteggiamento di ascolto orante quanto nella generosità dell’impegno per la missione e l’annuncio”.