AVVENTO
LA CONVERSIONE DELLE NOSTRE SPERANZE
una riflessione introduttiva al tempo dell’attesa
di Lisa CREMASCHI – monastero di Bose


Avvento: tempo di attesa, tempo di speranza. Ma oggi, nella nostra società occidentale, nella nostra Chiesa, nelle nostre comunità parrocchiali, si attende ancora qualcosa, qualcuno? Si spera ancora o ci si difende da un futuro che appare minaccioso, inquietante?
Siamo immersi in una cultura che privilegia il presente, l’attimo che stiamo vivendo e che dimentica il passato; quanto al futuro... è meglio non pensarci. I giovani di oggi parlano del “fare esperienza”, senza un preciso orientamento, senza la ricerca di un senso, con speranze a breve termine, “piccole”, perché è troppo difficile osare sperare e, spesso, queste speranze si fermano all’apparire e all’avere, in linea con una società dei consumi.

Del resto, come può esserci speranza quando mancano prospettive di lavoro, di giustizia, quando manca il senso del bene comune e prevale un individualismo esasperato? Molte persone in cui si è sperato e che sembravano dare speranza si sono mostrate inaffidabili; nuove realtà che ci facevano sognare si sono rivelate corrotte.

COSA SPERARE?
Di fronte alle continue smentite della storia del mondo (poiché, se è crollato il muro di Berlino, tanti altri muri sono sorti, forse ancora più solidi) e di fronte alle smentite nella storia personale di ciascuno (la malattia, le disgrazie, la mancanza di prospettive di lavoro, l’incapacità di perseverare nella fedeltà ai propri amori), si pone la domanda: “Che cosa sperare? Si può ancora sperare?”.
Di certo, la speranza non è facile ottimismo. Il credente è un uomo lucido, che discerne il potere del male, della sofferenza, della morte. La costituzione Gaudium et spes al capitolo 1° afferma:  “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.
Non siamo estranei alla crisi che sta vivendo la nostra società: crisi economica, crisi di valori, crisi nei rapporti umani. Ma va ricordato che il termine greco krísis non ha necessariamente ed esclusivamente una valenza negativa. La crisi può essere vitale, può essere -detto in termini cristiani- un appello alla conversione, a ritornare alle domande fondamentali: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? La crisi costringe a rivedere le nostre speranze e a uscire dalle illusioni. Nella vita ci sono sogni buoni, che fanno del bene e aiutano a vivere, e sogni cattivi, che fanno male, le illusioni, le pretese che la realtà si pieghi ai nostri desideri.
L’avvento è tempo che ci invita a purificare e a rinnovare la nostra speranza, la nostra attesa di colui che verrà a far nuove tutte le cose, a stabilire il suo regno di giustizia e di pace.

LA “CATTIVA” TRISTEZZA
Se guardiamo al Nuovo Testamento, troviamo che, spesso, i discepoli hanno dovuto imparare a convertire le loro speranze.
Pensiamo al dramma vissuto dalla comunità cristiana primitiva. Il Signore ha promesso di ritornare e di prendere con sé i discepoli, eppure cominciano a morire i primi apostoli e il Signore non ritorna. E, passato l’entusiasmo, il fervore iniziale, molti si scoraggiano, si lasciano andare.
La vita è lunga, la perseveranza in certi giorni si fa pesante, il prezzo della fedeltà diventa alto. È un’esperienza che tocca tutti prima o poi lungo il cammino; ci assale la tentazione di dire: “Non val la pena”, pensiamo di non aver più niente da aspettarci dalla vita, dagli altri, dal cammino di fede. A che serve tutto questo? Tanto, che cosa cambia?

La Seconda lettera di Pietro, al capitolo 3,3-4, registra lo scoraggiamento di chi assiste al ritardo del ritorno del Signore. Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni. Diranno: “Dov’è la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione”.
Viene qui riportata un’esperienza quanto mai attuale: sensazione di nausea, tedio, grigiore nel quale si è immersi a volte anche dentro la Chiesa, esperienza di stagioni della vita personale, comunitaria, di coppia nelle quali si tira a campare. “Tanto... a che serve impegnarsi? Tanto... che cambia? Dopo duemila anni di cristianesimo, che cosa è cambiato? Facciamo tanti bei discorsi in parrocchia, ma cosa cambia in realtà? Abbiamo sognato, sperato, ci siamo impegnati con tutte le nostre forze: con quale risultato?”.
È la tentazione del disfattismo; si finisce per cedere alla ripetitività, all’abitudine, alla logica del “si è sempre fatto così”; ci si lascia vivere, si fa quel tanto che è necessario soltanto perché si deve, senza più entusiasmo, senza crederci tropo, senza attendersi più nulla.
E quell’insieme di sentimenti che la tradizione spirituale cristiana chiama acedia (dal greco: akedìa, cioè non avere più alcun interesse, alcuna “cura” per niente). L’acedìa corrisponde, in certo senso, a quella “cattiva tristezza” di cui parla l’apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinti 7,10, là dove distingue tra una “tristezza secondo Dio”, cioè il pentimento, il dolore di non essere all’altezza della vocazione ricevuta, di non saper rispondere all’amore che il Signore ha avuto per noi; vi è poi la “cattiva tristezza”, che- dice Paolo- “conduce alla morte”.
Si tratta dì una tristezza mortifera, che avvelena la vita, che si nutre di malcontento, di frustrazione, perché i nostri desideri, le nostre pretese sulla vita, sugli altri non sono stati esauditi; si cede al lamento, alla mormorazione su tutto e su tutti concentrando il nostro sguardo sulla zizzania, che pure c’è, ma senza più vedere il buon grano che c’è, che cresce, forse senza far tanto chiasso, nel campo del mondo, della Chiesa, delle nostre comunità (come mai nei media se ne evidenzia così poco l’esistenza, come mai non vengono mai riportate notizie di realtà buone?).


COME ATTENDERE
L’avvento è tempo per ridestarsi dal sonno, purificare gli occhi del nostro cuore, reimparare a guardare alla nostra vita, agli altri. Così risponde la Seconda lettera di Pietro a chi cede allo scoraggiamento: “Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece ha un cuore colmo di bontà verso di voi perché non vuole che nessuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9). Se abbiamo ancora del tempo dinanzi a noi, se ci è regalato del tempo, è perché lo adoperiamo per fare ritorno al Signore, per metterci sotto le sue mani e lasciarci plasmare da lui e quelle mani le troviamo nella Parola spezzata e nel pane spezzato (Parola di Dio ed eucaristia).
Anche le nostre attese di un Messia che viene con forza e potenza vanno purificate; il tempo di avvento è tempo dì attesa di colui che è venuto su questa terra nella fragilità e nella debolezza di un bambino bisognoso di cure, di colui che è mite e umile di cuore (Mt 11,29).
La Chiesa è il piccolo gregge è quella comunità di uomini e di donne che vivono il vangelo nella mitezza e nell’umiltà, senza arroganza, senza pretese; testimoniano la gioiosa notizia -e non un elenco di leggi, di divieti, di norme – “se necessario, anche con le parole”, come ha detto papa Francesco. Quelli “di fuori”, i non credenti, vedono sui nostri volti, nel nostro vivere quotidiano, persone che nella fede, nella speranza, nell’amore pongono dei segni di un mondo diverso, dei piccoli segni del Regno?
L’avvento è tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio tra gli uomini e, contemporaneamente, è tempo in cui viene rinnovata la nostra attesa della seconda venuta, del ritorno di Cristo alla fine dei tempi.

QUALE MESSIA?
Vi è un’altra tentazione lungo l’attesa. È quella illustrata in Mt 11,3. Giovanni è stato arrestato, la voce che grida nel deserto è stata messa a tacere. Il Battista è in carcere per aver annunciato la volontà del Signore. Diventa un giocattolo nelle mani dei potenti. “Hanno tatto di lui quello che hanno voluto” (Mt 17,12), dirà Gesù.
Nel carcere, ormai prossimo alla morte, Giovanni ripercorre la sua vita che si è concentrata sull’annuncio di “colui che viene dopo di me, colui che battezzerà in Spirito Santo e fuoco e che pulirà la sua aia raccogliendo il grano nel granaio e bruciando la pula con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,11-12). Giovanui ha indicato in Gesù il Messia, ma ora si chiede dove sono i segni della sua venuta. “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”. È una delle rare volte in cui compare il verbo “attendere” nel Nuovo Testamento.
In che modo Gesù è Messia? Non sono stato ingannato nella mia attesa? Ho dedicato la vita intera, ho sacrificato tutto per qualcosa che non c’è? Perché la pula non è stata bruciata? Perché il grano, invece di essere raccolto nel granaio, è calpestato dai potenti? Perché la scure, invece di essere posta alla radice degli alberi, è posta sul collo di Giovanni? Qual è la salvezza portata dal Messia? È tutto qui? Non c’è nient’altro da aspettare? Non abbiamo da aspettarci nient’altro dalla vita cristiana, dalla nostra vocazione? Dove sono i segni della venuta del Messia?
E Gesù manda a dire a Giovanni. “I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, ì morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella” (Mt 11,5). Gesù manda a riferire a Giovanni dei segni di salvezza e di liberazione, ma per Giovanni qual è il segno di salvezza, di liberazione? Ha atteso per tutta la vita il Messia e dov’è ora per lui il Messia? I ciechi ricuperano la vista, ma Giovanni resta in carcere, gli storpi camminano ma Giovanni sarà messo a morte...  È l’ora della conversione dell’attesa. Il Battista deve convertire la sua immagine di Messia. “Beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,6).
Gesù si rivela Messia che non viene nella forza e nella potenza, ma nella mitezza e nella piccolezza, un Messia che va verso la croce, che accetta di esser rifiutato dagli uomini e si abbandona fiducioso nelle mani del Padre, e Giovanni è chiamato a rinnovare la sua fiducia e a continuare il suo ministero di precursore di Gesù anche nella morte, anche negli inferi. Giovanni consegna davvero tutto a colui di cui ha annunciato la venuta, anche le sue speranze e le sue attese.

CONVERTIRE LA SPERANZA
Come Giovanni, dobbiamo imparare a convertire le nostre speranze.
Ciascuno conosce il temibile scoraggiamento, la triste rassegnazione, l’angoscia dell’impotenza a cambiare, eppure ciascuno di noi può guardare avanti “dimentico del passato e proteso verso il futuro” (Fil 3,13). C’è un verbo caro alla tradizione spirituale antica: “ricominciare”. Non a caso papa Giovanni, che ben conosceva la tradizione spirituale dei padri della Chiesa, definiva la Chiesa  “la grande ricominciatrice”.
Un monaco del VII secolo, Giovanni Climaco, scrive: “La conversione è figlia della speranza e i rinnegamento della disperazione, (La scala 5,2). Solo se nutriamo in noi la speranza, possiamo iniziare un cammino di conversione; solo se diamo all’altro la speranza, se gli facciamo fiducia, possiamo indurlo a cambiare, a convertirsi.
In un antico racconto, si narra che un tale, dopo aver frequentato per un certo tempo una Chiesa, domandò a un presbitero: “Che cos’è in verità la comunità cristiana?”. E quel sapiente presbitero rispose: “È un luogo nel quale si cade e ci si rialza, e poi di nuovo si cade e di nuovo ci si rialza, e ancora si cade e ci si rialza”. E il suo interlocutore gli chiese: “Fino a quando?”. Gli fu risposto: “Fino a che venga il Signore, trovi che siamo caduti, ma ci stiamo rialzando e allora ci prenderà per mano e ci rialzerà lui definitivamente per portarci con sé”.
Avvento: tempo per destarsi dal sonno, vegliare, ricominciare. Sappiamo che cadremo di nuovo, ma con gli occhi volti al Signore, ogni volta cercheremo di rialzarci confidando nel suo perdono, nell’attesa fiduciosa del suo ritorno.


di Matteo Ferrari, Monaco di Camaldoli
Il tempo di Avvento è un tempo che potremmo definire “sfuggente”. Ci capita spesso anche in molte altre occasioni dell’anno liturgico di correre il rischio di dire “parole vuote”, che hanno un grande valore nella storia della teologia e delle spiritualità, che in realtà sono lontane dalla nostra vita. Questo è un rischio particolarmente insidioso per l’Avvento, che parla di venuta del Signore, di attesa, di vigilanza, di speranza. Si tratta di realtà e di termini che sono sulle nostre labbra nelle catechesi sull’Avvento, nei testi liturgici, nelle omelie. Tuttavia quanto essi sanno veramente toccare e trasformare la nostra vita? Siamo veramente uomini e donne che attendono e sperano? Cosa speriamo, cosa attendiamo? E al ritorno del Signore crediamo veramente? Si tratta di domande fondamentali per vivere l’Avvento, che ogni anno dobbiamo porci.
Chi può dare una risposta queste domande? Che cosa può rendere il “vocabolario dell’Avvento” capace di toccare la nostra esistenza e di dirle una parola autentica e significativa? L’unica realtà che può accompagnarci per vivere in modo significativo il tempo di Avvento è la Parola di Dio, il Lezionario che ci guida giorno dopo giorno nell’itinerario tracciato da questo tempo dell’anno liturgico. Cerchiamo allora di cogliere qualche spunto a partire dai testi biblici che la liturgia della Parola delle domeniche di Avvento dell’anno C ci presenta, sapendo che le domeniche sono le tappe fondamentali che segnano il cammino di ogni tempo liturgico.

Il Lezionario dell’Avvento
Prima però di addentrarci nelle singole domeniche, cerchiamo di comprendere come è costruito il Lezionario dell’Avvento. E’ importante fare questa premessa, per poter interpretare correttamente i testi biblici del lezionario dell’Avvento e il rapporto che intercorre tra le varie letture della celebrazione eucaristica domenicale. I criteri di scelta dei testi biblici del Lezionario liturgico vengono dati dall’Ordo lectionum Missae. Al n. 93 di questo documento leggiamo:
Le letture del Vangelo hanno nelle singole domeniche una loro caratteristica propria: si riferiscono alla venuta del Signore alla fine dei tempi (I domenica), a Giovanni Battista (II e III domenica); agli antefatti immediati della nascita del Signore (IV domenica).
Le letture dell’Antico Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal libro di Isaia. Le letture dell’Apostolo contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo tempo.
Innanzitutto si afferma che il brano evangelico di queste domeniche è scelto con criteri tematici e di conseguenza indica l’itinerario che la Chiesa compie in questo tempo. Questo primo dato ci dice una cosa importante per l’interpretazione del lezionario: nel tempo di Avvento le domeniche non vanno viste separatamente l’una dall’altra ma come “un percorso” che la liturgia ci fa compiere in questo tempo. Si parte dalla fine, cioè da brani evangelici tratti dai discorsi apocalittici presenti nei vangeli sinottici. Nella II e III domenica la figura di riferimento è Giovanni il Battezzatore, come precursore del Messia e figura dell’attesa. Infine nella IV domenica si leggono testi tratti dai vangeli dell’infanzia, che narrano i fatti che precedono la nascita di Gesù. Il tema escatologico tuttavia non riguarda solo la prima domenica, ma, come abbiamo già affermato, rimane un criterio interpretativo di fondo di tutti i brani evangelici dell’Avvento, compreso quello della IV settimana che sembrerebbe riferirsi maggiormente alla prima venuta del Signore.
I testi delle prime letture sono tratti principalmente da libri profetici. In essi, annunci della venuta del Messia, in modo che tutta la storia della salvezza e dell’umanità viene letta come animata da una gioiosa attesa di Dio, capace di ridare speranza. Se la letteratura profetica si presenta come parola di Dio rivolta a momenti concreti della storia dell’umanità, anche oggi una tale parola risuona nella nostra storia per aprirla all’attesa e alla speranza. Infine le seconde letture hanno principalmente un tono parenetico o di annuncio della manifestazione di Dio in Cristo Gesù. Senza scadere nel moralismo, esse indicano quale può essere una condotta di vita adeguata per chi abita la storia, sapendo che essa è in attesa di colui che viene per portare salvezza.
Questi sono brevemente i criteri che il Lezionario ci offre per interpretare i testi biblici del tempo di Avvento. E’ sempre molto importante, per leggere le letture del Lezionario e per preparare un’omelia, ritornare ai criteri di fondo che sono stati assunti per costruire il Lezionario stesso.

I Domenica: alzate il capo
Con la prima domenica del tempo di Avvento inizia la lettura del Vangelo di Luca, che ci accompagnerà in tutto l’anno C. Tra tutti gli evangelisti, Luca sembra essere quello che maggiormente pone attenzione ad una lettura della storia come “storia di salvezza”. La storia, per Luca, è divisa in tre tempi: il tempo della promessa; il tempo della realizzazione, cioè Cristo che costituisce “il centro del Tempo”, e infine il tempo della Chiesa nel quale, sotto l’azione dello Spirito Santo, i credenti sono chiamati a vivere la loro esistenza senza fughe dalla realtà, né false illusioni. Questi tre tempi della storia, che Luca contempla a partire da Cristo, che ne costituisce il centro e la chiave interpretativa, sembrano essere il tema anche delle tre letture di questa domenica.
Nella prima lettura infatti (Ger 33,14-16) Geremia, nel tempo della promessa, invita il popolo di Dio, che vive l’esperienza della sconfitta e dell’esilio, a non dubitare delle promesse di Dio, perché Dio non viene meno nel realizzare ciò per cui si è impegnato: «Ecco verranno giorni oracolo del Signore nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda». In un altro brano di Geremia troviamo un passo molto bello e suggestivo che parla della fedeltà di Dio, come un “vegliare/vigilare di Dio” sulla sua Parola per realizzarla. Al profeta YHWH dice: «io sto vigilando sulla mia parola per eseguirla» (Ger 1,12). Se l’Avvento è il tempo della vigilanza del credente nell’attesa del Signore che viene, in questo testo si parla di un “vigilare teologico”. Anche Dio vigila e l’Avvento è il tempo anche di questa vigilanza, che si pone come fondamento e senso della vigilanza dell’uomo. Se Dio non vigilasse, il nostro vigilare sarebbe una pura illusione, un inutile rifugiarsi in sterili vie di fuga.
La seconda lettura, tratta dalla Prima lettera ai Tessalonicesi (1 Tes 3, 12-4,2), guarda alla vita presente del cristiano e invita alla carità: «Il Signore poi vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore scambievole e verso tutti». Questa, secondo l’Apostolo, è la prospettiva con la quale “stare” nella storia: quella dell’amore.
Infine il brano del Vangelo (Lc 21,25-28.34-36) non parla del “cuore” della storia, cioè del “tempo della visita” di Dio in Cristo Gesù, ma della storia dell’umanità a partire da tale centro. Come vivere nella storia e nel tempo dopo la venuta di Gesù? Con quali occhi guardare il presente e il futuro? Sono queste le domande alle quali il brano del Vangelo di Luca di questa domenica tenta di dare una risposta.
II Domenica: la parola nel deserto
Nella II domenica di Avvento compare una delle figure che maggiormente caratterizza questo tempo liturgico, quella di Giovanni Battista (Lc 3,1-6). La figura di Giovanni il battezzatore, che è presente nella seconda e nella terza domenica di Avvento, con tutti i richiami veterotestamentari che essa evoca (Elia, Geremia, i profeti…), si mostra come “icona” particolarmente forte di questo tempo che la Chiesa celebra.
Giovanni, possiamo dire, è l’uomo dell’Avvento, “cerniera” tra l’antica attesa, che nella venuta del Messia Gesù si è realizzata, e l’attesa di una compimento pieno e totale che ancora attendiamo e alla cui luce già ci muoviamo. Infatti Giovanni è per il Nuovo Testamento il “precursore”, quella figura che nell’Antico Testamento doveva precedere la venuta del tempo del Messia. Ma, se è così, il tempo di Giovanni non è solo icona che ci parla dell’attesa della venuta nella storia del Messia, ma rimane sempre annuncio dei tempi ultimi e del “giorno di YHWH” che ancora attendiamo nella fede, nella speranza e nella carità.
Proprio per questo motivo la figura di Giovanni Battista può essere considerata, anche oggi, come la figura di un “uomo dell’Avvento”, parola sempre rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna che attraversano la storia in cammino verso l’incontro ultimo e definitivo con Colui che deve venire. E ad ogni uomo e ogni donna Giovanni continua a dire che questo è il tempo di “Colui che viene!”.
Nel complesso la liturgia della Parola aiuta a collocare una tale figura nella prospettiva dell’Avvento. Nel libro del profeta Baruc (Bar 5,1-9) si annuncia agli esuli un ritorno futuro, usando il linguaggio dell’esodo. Mentre la seconda lettura tratta dalla Lettera ai Filippesi ci cala nell’oggi e ci mostra come ciò che viene annunciato è una realtà che non riguarda solo il passato ma tocca la nostra esperienza di credenti.

III Domenica: rallegratevi nel Signore
Un tema che attraversa la liturgia della III Domenica di Avvento è certamente quello della gioia (Sof 3, 14-18; Is 12; Fil 4, 4-7; Lc 3, 10-18). Un tema che troviamo in questo anno C, ma che caratterizza un po’ tutti gli altri cicli liturgici: potremmo dire un tema trasversale. La terza domenica nella liturgia risuona come un “tempo di gioia” per una presenza attesa e “toccata”, che si fa sempre vicina.
Invece di pensare che la domenica III è la “domenica della gioia” perché ci avviciniamo al Natale, o perché si vive come un momento di sosta gioiosa nell’impegno del cammino dell’Avvento – tema che per altro sarebbe più logico per la Quaresima che per l’Avvento –, potremmo ritenere questa Domenica come la domenica della gioia dell’Avvento. Quindi non si tratterebbe di “isolare” il tema della gioia a questa domenica per la vicinanza del Natale, né si tratterebbe di considerarla come una “sosta” nel cammino di questo tempo, bensì di vedere in essa come la manifestazione di quella gioia che dovrebbe illuminare tutto il tempo liturgico dell’Avvento e quindi tutta l’esistenza cristiana.
Mi pare una prospettiva molto più ricca e più vera: la terza domenica di avvento – con le letture bibliche che la caratterizzano – ci narra “la gioia dell’Avvento”. Il tempo della vita dell’uomo può essere abitato dalla gioia, perché proteso verso un incontro, e abitato da una Presenza. È questo l’evangelo che per il tempo dell’uomo è il “sacramento” dell’Avvento.
Ma non basta usare la parola “gioia”, occorre dare un volto a questo sentimento che la liturgia di oggi ci invita a scoprire come proprio della esperienza credente. Quale volto ha la “gioia dell’Avvento”, cioè, più in generale, quale volto ha la gioia cristiana? Sono le letture della liturgia di questa domenica a narrarcene il volto!

IV Domenica: la gioia dell’incontro
Con la quarta domenica di Avvento la liturgia, dopo essere “partita dalla fine”, dal compimento, della storia e dalla venuta del Figlio dell’uomo, dopo aver ascoltato la “parola” che è Giovanni il Battezzatore, l’uomo del deserto e dell’Avvento, nell’ultima tappa iniziamo la lettura di quei testi che nei Vangeli narrano la venuta storica del Messia. In particolare sono i “poveri” di YHWH a fare la loro comparsa nella liturgia di questa Domenica, e saranno essi i “protagonisti umani” di tutto il tempo di Natale: coloro che sanno accogliere! Gli umili e i poveri sono coloro che hanno occhi per vedere e riconoscere la “visita di Dio”. Fino alla solennità dell’Epifania saranno essi ad essere “modello” per il credente che oggi è chiamato a vedere che Dio continua a visitare il suo popolo e ad incarnarsi nella storia perché tutto in Lui sia “re-intestato” (Ef 1,10).
Nel testo di Michea (Mic 5,1-4) si parla di piccolezza e di grandezza nel medesimo tempo. Betlemme è una piccola borgata della Giudea che è chiamata ad essere il luogo della Nascita di colui che “pascerà il suo popolo con la gloria del Signore”. Nel brano evangelico (Lc 1,39-48) il farsi strada della salvezza nella storia assume il linguaggio di un incontro. Le relazioni umane di due donne appartenenti al popolo di Israele sono il linguaggio che il Vangelo di Luca utilizza per descrivere l’arrivo dei tempi del Messia. L’incontro di due donne incinte, entrambe custodi della vita che attende di sbocciare, diviene immagine della storia “gravida” che sta per partorire un tempo nuovo e definitivo. Una donna sterile e anziana, come ai tempi di Abramo il primo padre; una donna vergine, sposa pronta per l’incontro con il suo sposo, come il popolo che nel suo esilio si sente promettere da Dio di essere “rifatto vergine” per grazia: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). Una donna “sterile” ed una donna “vergine” diventano immagini dell’umanità che diviene capace di generare la vita. Lì, proprio lì, dove sembra che sia impossibile ogni segno di vita, ogni speranza di futuro, l’intervento di Dio fa fiorire la gioia, la danza, l’esultanza e il canto.


Conclusione
Questo breve percorso attraverso i testi biblici del Tempo di Avvento dell’anno C non può – e non deve – dare risposta alle domane che ci siamo posti all’inizio. Può solo indicarci una strada: l’ascolto personale e comunitario della Parola di Dio che può dare consistenza e verità ad un “vocabolario dell’Avvento” che altrimenti rischia di non toccare e trasformare la nostra esistenza.