Presentazione della Lettera Pastorale del Card. Angelo Scola
incontro Mons. Paolo MARTINELLI 

                                                 Milano. Teatro Parrocchiale Gesù Divin Lavoratore – 16/10/2015
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Filmato “EDUCARSI AL PENSIERO DI CRISTO” (trascrizione audio)

1.    Di ritorno da Erbil – Erbil, centro profughi cristiano
Ho visto e toccato con mano le tragiche condizioni di sopravvivenza nei campi profughi di Erbil. Voglio sot-tolineare la fede profonda di quei nostri fratelli e sorelle cristiani sottoposti a prove per noi inimmaginabili.
All’inizio della Lettera Pastorale inviata alla Diocesi, il Cardinale Angelo Scola parla del viaggio recente in Libano e Iraq. Un viaggio – scrive – che in me ha dato carne all’urgenza della Chiesa in uscita, di cui offre instancabilmente testimonianza Papa Francesco. Voglio sottolineare la fede profonda di quei nostri fratelli e sorelle cristiani sottoposti a prove per noi inimmaginabili.
Il disegno di Dio nella storia passa sempre dalla realtà. E la realtà in questi giorni ci offre una trama impo-nente di circostanze e di rapporti grazie a eventi che riguardano il presente ed il prossimo futuro: l’Expo de-dicato al cibo per tutti, il pellegrinaggio delle Chiese di Lombardia ad Assisi, l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, la Visita Pastorale dell’Arcivescovo 2015-2017, il Convegno ecclesiale di Firenze, il discorso alla città in occasione di Sant’Ambrogio, i dialoghi di vita buona sull’evangelizzazione della me-tropoli, l’Anno Santo della Misericordia.

2.    Il pensiero di Cristo
C’è una categoria chiave che ricorre nella Lettera dell’Arcivescovo: è quella del pensiero di Cristo. Che cosa si intende per “pensiero di Cristo”? È lo stesso Cardinale a chiarircelo: è la grazia di una “sapienza nuova” – scrive -, non un pacchetto ben confezionato di buone idee cui far ricorso alla bisogna.
E qual è l’indizio attraverso cui questa sapienza nuova si palesa nell’esperienza umana? È la sorpresa di uno sguardo, una mentalità che urga al paragone con se stessi, con gli altri, con tutta la realtà e con Dio. Bisogna percorrere un cammino di maturazione che porta ad una nuova comprensione di tutta la realtà, che veda Gesù come fondamento. È lo stesso cammino che hanno percorso gli apostoli, è il percorso di Pietro, una delle figure più appassionate nella sequela di Cristo.

3.    Il cammino di Pietro
È l’inizio non all’incontro con una grande idea, bensì con una persona che dà alla vita un altro orizzonte. Ma per sentire la vita come la sente Gesù, Pietro e i discepoli hanno bisogno della sollecitudine educativa di Ge-sù attestata dai gesti e dalle parabole e, soprattutto, dalla condivisione della Sua vita con loro.
A volte Pietro e gli apostoli cedono alla tentazione di ridurre la novità di Cristo ad un loro pensiero, invece di aprirsi al pensiero di Cristo. Ogni volta è l’imponenza di un gesto di Gesù, spesso gesto di dedizione totale, a riportarli alla Sua misura.
Ma il cammino di Pietro non finisce qui. Come documentano gli Atti degli Apostoli, lo sviluppo del pensiero di Cristo avviene nell’edificazione della comunità e nell’apertura alla missione, fino all’apertura ai pagani e all’accoglienza nella stessa comunità cristiana.

4.    Da Pietro a noi.
E oggi, anno 2015, come fare nostro il pensiero di Cristo? Come ci si lascia educare al pensiero di Cristo? È Lui stesso che suggerisce il metodo, chiedendoci una immedesimazione con il Suo pensare e il Suo sentire. Di cosa è fatto il sentire di Cristo? È fatto di una obbedienza filiale al Padre. Dal nostro immedesimarsi con il sentire di Cristo ci viene l’energia che spalanca ad ogni altro incontro e rende capaci di affrontare ogni si-tuazione. È una mentalità, è un modo di sentire, di intendere la realtà che scaturisce dall’aver parte con Cri-sto. Ma come dice Massimo il Confessore, per il cristiano c’è la necessità di pensare Cristo “attraverso tutte le cose”. Ogni circostanza e ogni rapporto è occasione provvidenziale per scoprire la ricchezza del mistero di Cristo.
Infine, l’educarsi non è un percorso individuale, ma un “esercizio di comunione con i fratelli”. La vita cri-stiana è un “essere con”.

5.    Le conseguenze per la Chiesa Ambrosiana.
E ora domandiamoci: la nostra vita di fede sa farsi proposta di un nuovo modo di pensare, sentire e com-prendere l’esistenza? La capacità di iniziativa incide sul modo di concepire la vita nei suoi aspetti fondamen-tali? 
La dimensione culturale della fede spalanca i credenti all’universale confronto con tutti e con tutto in un in-defesso tentativo di cogliere il bello ovunque e comunque si presenti, lasciando cadere ciò che non è tale. Questo può avvenire coltivando la misericordia, che è il tratto del modo di pensare e di agire di Gesù.
La famiglia è il soggetto primario dell’educazione al pensiero di Cristo.
Esistono poi altri ambiti privilegiati in cui può crescere questo senso profondo della vita: come la Liturgia, attraverso la cura del canto e di tutto ciò che favorisce partecipazione; la catechesi, se è tesa a tentare risposte alle domande cruciali che l’uomo del terzo millennio si pone; l’impegno nelle opere di carità, occasione privilegiata di educazione integrale anche a nuovi stili di vita; la presenza nel mondo dell’educazione; la ca-pacità di parlare agli uomini d’oggi attraverso i mezzi di comunicazione, attraverso il linguaggio dell’arte. Infine la capacità di testimoniare la sapienza nuova che viene da Cristo in una società plurale come la nostra senza avere pretese di egemonia.

6.    Il coraggio e la franchezza della testimonianza.
Cosa insegna il coraggio di tanti cristiani perseguitati nel mondo? Cosa insegna il coraggio dei rifugiati di Erbil? In questo frangente storico che siamo chiamati a vivere, denso di incertezze di fronte al futuro, l’unica risposta è quella di uscire ad annunciare Gesù, come fecero i primi e come raccontano gli Atti degli Apostoli.
Il Cardinal Scola conclude con questo augurio la Lettera Pastorale:
«Percorriamo con umile franchezza e coraggio le vie del mondo, ricchi solo della quotidiana compagnia di Gesù e della sua Chiesa. Senza pretese, liberi dall’esito. Noi vogliamo solo amare e sentire come Cristo e pensare Lui attraverso tutte le circostanze e i rapporti della nostra esistenza per il bene nostro e di tutta la famiglia umana.»

   (Il don che introduce) Bene. Vorrei lasciar subito la parola a Monsignor Martinelli semplicemente con una domanda: Che cosa ci sta cercando di dire il nostro vescovo?

 Monsignor Martinelli:

   Siamo già aiutati un po’ a rispondere alla domanda grazie al bel video che abbiamo visto insieme, che ci ha già dato un po’ la struttura di questa Lettera Pastorale.
Vi presento questo testo un po’ in chiave di testimonianza, cioè di quello che questo testo sta dicendo a me, anche perché mi è già capitato altre volte di presentarlo e quindi tutte le volte che lo presento ci rifletto e scopro qualcosa di più, in genere anche poi grazie alle domande che mi vengono fatte. Quindi vediamo un po’, sarebbe una cosa preziosa sentire un po’ anche le vostre reazioni.
   Ma io faccio così: vi dico un po’ lo schema di quello che mi ero segnato da dirvi, un po’ di osservazioni iniziali, precisazioni importanti, previe sul testo; e poi pensavo di fare tre passaggi essenzialmente. Quindi dopo alcune informazioni, mi fermerò soprattutto sul senso dell’itinerario, sul secondo capitolo, che è quello dedicato al percorso di Pietro, e poi vorrei fare una osservazione sintetica su cosa si debba intendere per pensiero e sentimenti di Cristo, e poi alcuni elementi riguardo a come ci possiamo educare e a quali sono i passi che vengono suggeriti.

Alcune osservazioni iniziali.
    Direi, la prima cosa che ho osservato, dal punto di vista in cui mi trovo, delle realtà che incontro, è che questo testo ha destato, diciamo, una certa curiosità, un certo interesse. Ho anche scoperto, ad un certo punto, non so se è ancora così, ma che è stato abbastanza in alto nelle vendite questo libretto. E il motivo per cui ha destato curiosità e interesse mi sembra perché questo testo ci rende più consapevoli che la persona di Gesù - che mi sembra una cosa rilevante, antica e nuova nello stesso tempo - la persona di Gesù non è solo l’oggetto della nostra fede né il contenuto del nostro atto di fede – ovviamente anche quello sicuramente -, e non è nemmeno solo il termine della nostra preghiera, della nostra devozione nel senso profondo del termine. O meglio, si potrebbe dire che l’oggetto della nostra fede, Cristo, come il termine della nostra fede, questo “oggetto” tra virgolette, in realtà è un ben preciso soggetto! È uno, un uomo, è una persona.

E poi, l’altra cosa che mi sembra ha destato curiosità è proprio il titolo stesso: Educarsi al pensiero di Cristo. Tra l’altro si rifà anche a un’espressione di San Paolo, nella I Lettera ai Corinti.  Però mi sembra che è una cosa su cui non si pone molta attenzione, cioè appunto Cristo lo si considera tanto come il termine, diciamo, della nostra fede cui fa riferimento, ma si fa poca attenzione, cioè si pensa poco al fatto che Cristo pensa: è un uomo, come uomo pensa, ha dei sentimenti; e che questo sia estremamente interessante, estremamente rilevante per noi. In questo senso, il parlare del pensiero di Cristo, dei sentimenti di Cristo, vuol proprio sottolineare il fatto che Gesù sia una presenza profondamente umana, sia un tu a cui ci si può rivolgere, che ha un pensiero da comunicare, che ha dei sentimenti da vivere e da comunicarci e di cui renderci partecipi. E in questo senso parlare del pensiero di Cristo e dei suoi sentimenti è come una implicazione potentissima del mistero dell’incarnazione. Se Cristo è il Verbo di Dio che si fa veramente uomo, allora tutto ciò che è umano è assunto dal Verbo di Dio; cioè tutto l’umano diventa il linguaggio che Dio utilizza per comunicarci la verità di Dio, il Suo amore.

C’è una bellissima frase, che è un po’ passata tra i Padri della Chiesa, in cui si dice che «Ciò che non è as-sunto non è salvato», in riferimento proprio al mistero dell’incarnazione. Questo è il motivo per cui i Padri della Chiesa sono stati indomabili nel riconoscere a Cristo tutta la realtà umana, senza lasciare fuori niente! Nemmeno l’ombelico; ha pure l’ombelico, perché nasce da una donna, non è una meteora che entra nel tem-po; ha un corpo, ha un’anima, ha dei sentimenti, ha un pensiero: perché è realmente uomo! Per salvare tutto l’uomo. Fa proprio parte del mistero dell’incarnazione. Siccome Cristo ci salva assumendo l’umano, non c’è niente dell’umano che deve lasciar fuori, altrimenti non sarebbe salvato: ecco perché per i Padri della Chiesa quello che non è assunto non può essere salvato. Per cui perché il corpo sia redento, bisogna che Cristo prenda un corpo; perché la libertà sia redenta, bisogna che Cristo assuma una libertà umana; perché il pensiero sia redento, Cristo deve avere un pensiero umano. Quindi è interessante questo invito a fare nostro il pensiero di Cristo, i suoi stessi sentimenti.

Quindi mi sembra che tutta la lettera è un invito a prendere sul serio il mistero dell’Incarnazione. Questa mi sembra la prima cosa più importante che il nostro Cardinale ci vuole dire.

    Poi alcune precisazioni importanti.
La prima è che il titolo della Lettera Pastorale è Educarsi al pensiero di Cristo. Però come abbiamo sentito anche nel video di presentazione, come si capisce immediatamente nel trascorrere, nel far passare le prime pagine del testo, subito si capisce che il testo fa riferimento a 2 espressioni fondamentali, tutte e due di San Paolo. Una è tratta dalla I Lettera ai Corinti, «Noi abbiamo il pensiero di Cristo» - una frase che fa un po’ tremare –, «Noi abbiamo il pensiero di Cristo»: non come una conquista, ma come un dono, che occorre ac-cogliere, che occorre far crescere in noi; qui già subito si capisce che non è il pensiero come una dottrina, un insieme di asserti astratti, ma è, fa parte del dono che Cristo fa della Sua Persona. E l’altra frase è tratta dalla Lettera ai Filippesi, al capitolo II, al versetto che introduce il famoso inno cristologico: «Cristo Gesù pur es-sendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso as-sumendo la condizione di servo. Apparso in forma umana umiliò se stesso». Ecco, questo inno, che è presente nella liturgia delle Ore e anche nella liturgia della Santa Messa, è introdotto da una frase, che dice: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». E qui si vede proprio che il Cardinale nel testo usa queste due espressioni come per indicare un’unica figura, cioè i pensieri e gli affetti. Sono come due volti della stessa realtà, perciò sono inseparabili; si colgono bene solo se vengono assunti insieme. E tra l’altro è molto bello, il libretto lo spiega molto bene in una nota molto accurata, dove qui i termini che San Paolo usa, tutti e due i termini greci sono molto interessanti: perché “pensiero”, usa il termine greco nous che appunto  non dice il pensiero come concetto, ma il pensiero come mentalità, come modo di intendere, come modo di percepire la realtà; e l’espressione relativa ai sentimenti di Cristo, Abbiate in voi gli stessi sentimenti, il termine greco è phroneo che indica etimologicamente il diaframma, il respiro, quindi dice il respiro profondo, l’intimità di Cristo, il Suo io. E quindi l’invito è proprio quello a cogliere insieme questa realtà: pensieri, quindi la mentalità, il modo con cui Cristo guarda la realtà, e il suo modo di sentire. E qui allora si capisce che il pensiero appunto non è complesso di dottrine, ma una mentalità.

    E poi mi sembra che proprio quello che tiene insieme questi due termini - si potrebbero riassumere: mentalità, sentimento, profondo che coincide con il respiro interiore della persona di Cristo - è in fondo l’idea dello sguardo, lo sguardo di Cristo. Cioè avere il pensiero di Cristo, avere, immedesimarsi, Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo, fa proprio pensare anche a tutta l’iconografia, molto diffusa in tutta la storia del Cristianesimo, proprio dello sguardo di Cristo. Si potrebbe dire che dopo la scena della Crocefissione, l’iconografia più interessante da vedere nella storia del Cristianesimo è proprio quella del volto di Cristo: pensate a grandi rappresentazioni, che hanno attraversato un po’ tutta la storia dell’arte cristiana. Il volto di Cristo, cioè il Suo modo di guardare la realtà, il modo con cui il Suo sguardo riposa sulle cose, sulle persone. Quindi, diciamo, l’invito ad avere il pensiero di Cristo, ad immedesimarsi con i Suoi stessi sentimenti, è un invito a guardare la realtà come la guarda Cristo. Cioè ad essere introdotti alla realtà dal Suo sguardo, dal Suo modo di vedere, di intendere le cose. Un po’ come fanno i bambini, che vengono introdotti alla realtà quando si accorgono che i genitori la guardano, e la guardano in un certo modo. Tutti noi siamo introdotti così. Quindi non è un automatismo astratto il rapporto con la realtà, è sempre un gioco di sguardi. Noi impa-riamo a guardare la realtà perché qualcuno la guarda e noi rimaniamo incuriositi. Soprattutto ho in mente lo sguardo dei bambini che guarda gli altri che guardano, e quindi vengono introdotti alla realtà stessa. Ecco, allora il pensiero di Cristo è direi proprio un itinerario, qui viene suggerito come un itinerario. È sostanzial-mente un itinerario di conversione, che scaturisce dall’incontro e dalla sequela di Cristo. Educarsi al pensiero di Cristo, ad avere i Suoi stessi sentimenti, è proprio andare al fondo dell’incontro e della sequela di Cristo.

    Come si fa a capire se noi abbiamo veramente accolto questo incontro nella nostra vita? Qual è la verifica della nostra vita di sequela? Non sono tanto dei gesti che noi possiamo fare, delle iniziative, ma il fatto che ci troviamo nel tempo un’altra mentalità, un altro modo di… Qui ci accorgiamo che Cristo sta dav-vero cambiando la nostra vita, perché arriva a cambiare il nostro modo di sentire, il nostro modo di giudicare, di intendere la vita, di guardare gli avvenimenti, di incontrare le persone.

    E poi l’ultima precisazione, mi sembra così previa da fare, è questa insistenza sul verbo educarsi al pensiero di Cristo, dove qui non è educare al pensiero: educarsi, che vuol dire ci son di mezzo io, c’è di mezzo la mia persona, il mio modo di sentire, di intendere, di giudicare. Se non passa attraverso di me, non succede niente, cioè non si tratta di far la propaganda di un pensiero: si tratta di educare sé, di mettere in gioco la propria persona nell’incontro con Cristo. Ed è interessante, questo mi sembra proprio il rilievo forte del Cardinale in questo testo: cioè occorre mettersi in gioco con Cristo, e mettersi in gioco vuol dire sempre mettere in discussione il mio modo di sentire, il mio modo di intendere, il mio modo di giudicare. Se Cristo non arriva a diventare un nuovo modo di sentire, rischia di diventare appunto un’idea astratta, un principio a cui possiamo fare ogni tanto riferimento, prendere spunto. È un fenomeno che noi a volte osserviamo anche nelle relazioni, nelle amicizie, quando tu frequenti delle persone e dopo un po’ ti accorgi che stai assimilando un certo modo di pensare, un certo modo di sentire, perché stai con loro, perché condividi con loro l’esistenza.

    Poi sarebbe importante cercare di mettere in evidenza perché l’urgenza di questo tema, perché il Cardinale vuole impegnare tutta le vita della Chiesa ambrosiana su questo tema per ben due anni, quindi nell’anno pastorale 2015-2016  fino al 2017. Perché questa insistenza? Noi sappiamo che quando il Cardinale ha assunto la missione pastorale di Arcivescovo di Milano ha sempre insistito sui famosi quattro pilastri su cui si edifica, si costruisce la comunità cristiana, che sono evinti, sono colti da un testo, quello degli Atti degli Apostoli, capitolo II, i versetti dal 42 e seguenti, dove si cercano proprio di mettere in evidenza, attraverso le espressioni di questo testo, questi quattro pilastri, fondamenti della vita della comunità cristiana: il crescere nel perseverare nell’insegnamento degli Apostoli, nella memoria eucaristica, nella comunione, nella condivisione fraterna, e nella dimensione missionaria della convivenza. Questi sono i quattro pilastri fonda-mentali. Il permanere nell’insegnamento degli Apostoli è proprio fatto coincidere con l’avere il pensiero di Cristo, con l’educarsi al pensiero di Cristo. Poi la memoria eucaristica è illuminata sempre dalla Parola di Dio, la condivisione fraterna nella carità e quindi appunto la dimensione missionaria.
Ora, perché è così importante questa prima dimensione, che il Cardinale vuole richiamare in modo particolare in questi due anni? L’importanza decisiva di questa dimensione, da non comprendere come preoccupazione di carattere intellettuale. Appunto, se il pensiero di Cristo è una mentalità, educarsi al pensiero di Cristo non vuol dire innanzitutto l’imparare alcuni concetti, alcune dottrine, ma vuole invece dire riscoprire la dimensione culturale della fede. E che cosa vuol dire? Qui ci sono delle pagine secondo me bellissime del Cardinale, dove ogni tanto viene molto citato sia Papa Francesco che  Giovanni Paolo II, oltre che Papa Ra-tzinger, ma soprattutto là dove si insiste sul fatto che la cultura non è qualcosa che si aggiunge alla fede, non è una conseguenza, ma è una implicazione originaria dell’esperienza della fede; cioè la fede non è veramente vissuta se non diventa cultura, se non genera cultura. Vale a dire se non diventa un modo di intendere la vita, di sentire la vita, di costruire, edificare vita buona, bene comune. E in questo senso è molto bello quando il nostro Cardinale dice: da questo punto di vista ogni cristiano per il fatto stesso di avere la fede è un uomo di cultura; non perché scrive libri, ma perché vive la fede fino a scoprirne le implicazioni culturali, cioè fino a scoprire che la fede è un modo nuovo di intendere la vita, di sentire la vita, di vivere gli affetti, di vivere il lavoro, di vivere il dolore come la gioia, di vivere il senso della nascita come quello della morte. Questa è per-ciò la cultura: è questa capacità della fede di diventare sguardo, intelligenza.
Diceva Benedetto XVI: «L’intelligenza della fede diventa una intelligenza della realtà». La fede diventa un modo di guardare e di intendere la vita.

Penso soprattutto alle grandi intuizioni che il beato Paolo VI ha avuto quando era ancora Cardinale di Milano ma per certi aspetti ancora prima, quando cioè avvertiva che il dramma del nostro tempo è proprio lo scollamento tra la vita e la fede, tra la fede e la cultura. Potremmo dirlo in altri termini: questa privatizzazione della fede che non diventa appunto capacità di incidere, di promuovere vita buona, vita condivisa, che non diventa bene comune condiviso con tutti.
Bene, questa era un po’, diciamo, la grande introduzione. Non spaventatevi, con quello che abbiamo detto qui siamo già ai due terzi. Adesso vi dico brevemente i passaggi che vorrei richiamare.

   1. Allora, il primo elemento è, dato questo orizzonte, il senso dell’itinerario che viene proposto. E qui, se non l’avete ancora fatto leggetelo il II capitolo, perché è proprio bello, è molto biblico, cioè questo carattere narrativo di immedesimarsi con il cammino che hanno fatto Pietro e gli altri apostoli, e i discepoli. Lì vera-mente questo capitolo non bisogna proprio saltarlo perché leggere gli altri senza leggere questo, senza rileg-gerlo, appunto può aprire in noi il fianco all’idea che il pensiero di Cristo sia una dottrina da imparare e siano dei concetti da acquisire; invece il II capitolo, cioè questo seguire l’itinerario di Pietro e degli altri discepoli, fa proprio capire che avere il pensiero di Cristo vuol dire lasciare che quell’incontro lì determini la tua vita, arrivi a cambiare il tuo modo, a dilatare il modo solito con cui intendiamo la vita.
   Allora qui mi ero segnato alcune cose che sono quelle che mi hanno impressionato di più nel modo narra-tivo con cui il Cardinale presenta il cammino di Pietro. E in primo luogo c’è proprio questa centralità dell’incontro e della chiamata dei discepoli e di Pietro in particolare. L’incontro e la sequela sono autentici proprio se procurano, se generano in noi un cambiamento di mentalità, cioè il modo di guardare la vita, di intendere tutta la realtà quotidiana. Quindi l’incontro, in Pietro in particolare, è generativo di un nuovo sen-timento di sé: questo è il primo contraccolpo di un cambiamento, che si inizia a sentire se stessi, si pensa se stessi, al proprio nome. Quanto è bello, perché Pietro appunto viene chiamato da Gesù con il suo nome, Si-mone, ma poi gli viene dato un nome nuovo, Cefa. Dare un nome nuovo è una rivoluzione. Soprattutto nel linguaggio ebraico è importantissima questa idea del dare il nome. Qua è interessante perché il nome Pietro ha tanti significati: in particolare, nel linguaggio del Nuovo Testamento, Pietro indica la pietra, la roccia, la solidità su cui Cristo stesso appoggerà la Sua Chiesa, su questa persona. Però, Pietro, pietra, roccia, in questo linguaggio vuol dire anche “Hai la testa dura, sei un crapone!”. Quindi è come se Gesù avesse intuito il personaggio, avesse capito la personalità. Pietro in questo incontro si è come sentito conosciuto. Qui si capi-sce subito che non è una dottrina esterna da imparare. La prima cosa che Cristo introduce è che mi introduce ad un nuovo sentimento di me, cioè mi fa conoscere, fa conoscere me stesso in modo nuovo, fino a darmi, a rivelarmi un nome nuovo, una mia identità che rende più vero tutto quello che io sono stato fino a quel mo-mento.

   E poi, l’altra cosa importante, che continua a ricorrere in questo capitolo, è guardare appunto a come Gesù guarda, giudica gli avvenimenti e le persone che incontra. Qui penso che giustamente il Cardinale dice che non bisogna avere paura di usare la parola “giudicare”, che non è nel senso di “condannare”. La parola “giu-dizio” in senso tecnico vuol dire proprio la capacità di riconoscere la realtà, di intendere le cose, capire il loro significato. Non giudicare nel senso di condannare. Ma l’uomo può muoversi nella realtà solo se riesce a giudicare le cose, cioè di riconoscere quello che le cose sono; altrimenti, come si fa a muoversi nella realtà se non si ha la capacità di rendersi conto di quello che abbiamo di fronte? Quindi in questo senso lo sguardo di Gesù è uno sguardo che coglie la realtà nel suo vero significato. E qui introduce, appunto, uno sguardo completamente diverso. Per esempio, Pietro e gli altri rimangono incuriositi, colpiti da come Gesù pensa a tutto l’Antico Testamento, alla Legge, al rapporto con Dio; o al modo con cui si rivolge agli ammalati, ai peccatori; lo sguardo di tenerezza, di misericordia, questa capacità di abbracciare l’altro per quello che è, più profondamente che non per quello che ha fatto o per quello che crede di essere. Questa è la misericordia! Da questo punto di vista, il testo riprende più volte il tema anche del Giubileo, cioè dove la misericordia davvero esprime il sentimento che Gesù ha nei confronti di tutta la realtà: questo sguardo sulle persone che va al cuore, passando attraverso tutta la scorza che possiamo avere davanti. Pensiamo al modo con cui, per esem-pio, chiama Matteo, pubblicano, cioè un pubblico peccatore: con lo stupore di tutti, lo chiama! È molto bello perché questa è anche la frase che dà origine al motto di Papa Francesco: Misereando et eligendo,   Avendo misericordia ti chiama; elegge, ti chiama a far parte dei suoi, che condividono più strettamente la missione; oppure pensate al modo con cui Gesù sta di fronte a Zaccheo, questo uomo additato da tutti, assolutamente pubblico peccatore, che aveva come lavoro quello di portare via i soldi alla propria gente; venduto al nemico, al dominatore. E Gesù sa valorizzare l’ultima cosa di questa persona, quella curiosità estrema che lo fa salire sul sicomoro, e Gesù da lì introduce una novità. E quell’uomo cambia! Matteo cambia. Zaccheo cambia. La cosa interessante è che il Vangelo non ci dice che cosa si sono detti, lo si capisce che Zaccheo va via da quell’incontro cambiato. Restituirà quattro volte tanto a quelli a cui ha portato via e darà la metà dei suoi beni ai poveri. È così il modo con cui Lui guarda tutta la vita. Pensate l’episodio del cieco nato, come lo guarda, come giudica le calamità, a come valorizza l’obolo della vedova, andando al di là dell’apparenza immediata delle cose. Un altro modo di sentire la vita! Pensate al paradigma del discorso sulla montagna, questo sovvertimento del modo solito di sentire le cose: «Beati i poveri, beati i miti…».

   E poi l’altro elemento che viene tanto valorizzato nel testo è anche il fatto che questo cammino passi anche attraverso grandi difficoltà e grandi incomprensioni. E Pietro da questo punto di vista è proprio un po’ il rappresentante anche, lo dico ancora una volta, della “crapa dura”, cioè di quello che non si lascia mettere facilmente in discussione. Pensate, per esempio, quando Gesù annuncia la Sua passione, e Pietro gli si mette di fianco, e gli dice: «Questa cosa non ti accadrà mai, non è opportuno», cioè Pietro smette di fare il disce-polo, si mette a dare i consigli a Gesù Cristo. E qui Gesù usa le parole più dure che poteva mai usare: «Vai di dietro, vai hýpaghe, - la traduzione dell’espressione -, torna dietro Satana!», cioè torna a fare il discepolo, appunto. Sei chiamato a seguire, sei chiamato a imparare un modo nuovo di sentire, non a dare i consigli al Messia. Devi fare il discepolo, devi tornare a fare il discepolo. E poi questa impressionante resistenza a la-sciarsi salvare. La scena, riportata dal Vangelo di Giovanni, della lavanda dei piedi: lui per ben due volte Gli dice di no! E Gesù gli dice: «Guarda che se non ti lasci lavare i piedi, non avrai parte con Me», cioè non sa-rai salvato. Cioè per poter servire Cristo, bisogna prima lasciarsi servire da Lui.  Per poter essere ministri di Cristo, bisogna prima lasciare che Cristo ci lavi i piedi. Per poter amare, bisogna prima lasciarsi amare, fino al perdono, fino al perdono dei nostri peccati, che avviene nel mistero della croce. Qui il mistero del tradimento di Pietro, che trova questo straordinario riscatto dell’incontro con Gesù risorto, nella famosa scena riportata ancora dal Vangelo di Giovanni, il famoso «Mi ami tu?» che per ben tre volte Cristo chiede a Pietro, evidentemente evocando quel tradimento che Pietro mai avrebbe pensato di avere, colui che si era messo a dare i consigli, come fare il Messia, lui che non voleva lasciarsi lavare i piedi! Cristo in questa richiesta triplice dell’amore evoca questo tradimento perché in lui sorga la certezza che quell’amore non verrà più meno. E questo veramente è un po’ il cuore della dinamica con cui la mentalità e gli affetti cambiano, la mentalità e i sentimenti cambiano. La nostra mentalità si allarga alla mentalità di Cristo e i nostri sentimenti partecipano a quelli di Cristo. È Cristo che diventa il centro affettivo della persona. Da qui in avanti sarà evidente per Pietro che il Cristo è tutto. «Sì, tu lo sai che ti voglio bene.». Allora? «Adesso puoi seguire!». «Adesso posso seguire!». «Adesso segui!» «Pasci le mie pecorelle». L’affetto per Cristo diventa il centro della personalità di Pietro. Allora lì, sì, la mentalità è messa in discussione, allora i sentimenti perdono la misura solita, la ristrettezza solita, ma nasce appunto un nuovo modo di sentire la vita.
   Poi mi sembra interessante il fatto che questa avventura non finisce quando Gesù ascende al cielo. La Chiesa, con Pietro che assume il ruolo del capo degli Apostoli, come gli era stato dato e confermato da Cri-sto, dopo la risurrezione, deve immediatamente incontrare realtà, fatti che costringono i fedeli a scoprire di più chi è Cristo. Il Cardinale qui cita un episodio chiave degli Atti degli Apostoli, cioè quando si accorgono, i discepoli, che iniziano ad aggregarsi al gruppo iniziale persone che provengono dal paganesimo. «Allora, come si fa?». Lì i discepoli hanno capito di più chi era Cristo, quando hanno visto arrivare queste persone, che non c’entravano nulla con Israele, e hanno capito che Cristo era veramente per tutti! Perciò hanno capito di più chi era quel Cristo che avevano incontrato sulle strade della Galilea, che era veramente per tutti. E quindi questo fa capire perché il sentire con Cristo è sempre un sentire con la Chiesa, sempre un sentire in-sieme: non si può avere gli stessi sentimenti di Cristo se non si impara ad avere tra di noi gli stessi sentimenti, proprio in continuo riferimento alla Sua presenza.

   2. La seconda breve riflessione che vorrei fare su questo è: allora, possiamo forse dire una parola, almeno così come io l’ho colta praticamente un po’ in tutti i capitoli? Il Cardinale ogni tanto esplicita qual è effetti-vamente il pensiero fondamentale di Cristo, quale sia il Suo sentimento fondamentale al quale i discepoli sono chiamati a partecipare. Lo dice in filigrana lungo tutto il testo, facendo proprio eco sia al Vangelo di Giovanni che alla Lettera ai Filippesi, perché nel Vangelo di Giovanni Gesù ha una modalità con cui presenta il Suo modo di sentire la vita, soprattutto nei grandi discorsi polemici, quelli che vanno dal capitolo IV fino all’VIII nel Vangelo di Giovanni. Proprio nei discorsi polemici, Gesù  viene fuori nel Suo sentimento fondamentale, sentimento dominante, che poi San Paolo, nella Lettera ai Filippesi, nel famoso inno cristolo-gico, andrà a identificare come l’obbedienza che Gesù ha nei confronti del Padre; e nel Vangelo di Giovanni soprattutto si evince in tutte quelle volte in cui Gesù parla di sé stesso come il mandato dal Padre a fare la Sua volontà, dove cioè la persona di Gesù, la coscienza che Gesù ha di se stesso, quello che i Vangeli ci pos-sono far percepire, è che Gesù, la Sua coscienza, è quella di essere mandato, cioè di coincidere con la sua missione. Allora il pensiero e il sentimento di Gesù è ultimamente il pensiero del Padre. Gesù ha il pensiero del Padre, quello che appunto così spesso oggi manca, nella nostra cultura. Gesù è dominato dal pensiero del Padre, dal sentimento potente, fondante del Padre; cioè Gesù sente se stesso, sente la realtà, incontra le per-sone dal punto di vista del Padre. Perciò tutto in Cristo evoca il Padre, cioè tutto è occasione per rispondere alla volontà del Padre. Questo è il sentimento e il pensiero dominante di Cristo: guardare le cose, giudicare i fatti, incontrare le persone con lo sguardo del Padre, con gli occhi del Padre che fa la vita, che fonda la vita, che dà vita. Allora, questo è proprio il sentimento fondamentale di Cristo: essere il mandato dal Padre a fare la Sua volontà. Perché per Cristo il Padre è tutto. È la realtà dominante la Sua autocoscienza, i Suoi pensieri e la Sua sensibilità. Allora tutto, ogni avvenimento, ogni persona che incontra, sia l’ammalato sia il peccatore o la peccatrice sia il discepolo che ha tradito, tutto è guardato con lo sguardo del Padre, con la tenerezza del Padre, con la misericordia del Padre.

   3. Allora, – questa è la terza cosa che dico -  come si dipana per noi questo educarci al pensiero di Cristo?  Che cosa vuol dire, come può accadere per noi?  Il metodo fondamentale perciò è lo stesso di quello narrato dai Vangeli, dalle Lettere apostoliche, dagli Atti degli Apostoli: cioè si impara il pensiero di Cristo stando con Lui, vivendo con Lui, guardando la realtà insieme a Lui. Da questo punto di vista è proprio bella quella frase che il Cardinale cita di Massimo il Confessore, questo straordinario, grande santo teologo del primo millennio, che proprio a commento della frase di San Paolo «Noi abbiamo il pensiero di Cristo» dice: «Anch’io ho il pensiero di Cristo perché guardo tutte le cose secondo Cristo e attraverso tutte le cose conosco Lui». C’è come un duplice movimento che non dobbiamo smarrire perché è decisivo: cioè, l’educarsi al pensiero di Cristo vuol dire immedesimarsi sempre di più con il modo di Cristo di sentire la realtà. Dicevamo che il pensiero dominante di Cristo è il Padre, è il pensiero del Padre: quindi imparare ad immedesimarsi con questa sensibilità di Cristo, e questo lo si fa stando con Lui. Perciò nell’immanenza profonda della comunità ecclesiale, nel vivere i gesti quotidiani della comunità impariamo a fare nostri il pensiero e i sentimenti di Cristo. Ma poi vuol dire pensare Cristo attraverso tutte le cose! Questo vuol dire che immedesimarsi con Cristo non crea un circolo chiuso, ma ti spalanca a 360°. Ma qui, ancora una volta, è come un bambino che guardando lo sguardo bello, positivo, che il papà e la mamma hanno sulla realtà comincia a guardare tutta la realtà, si spalanca a tutta la realtà, è introdotto al mistero dell’essere, di tutte le cose; e quindi il guardare tutte le cose, l’aprirmi 360° sulla realtà, mi fa conoscere di più chi è Cristo! Perciò non ho mai finito di avere il pensiero di Cristo, non ho mai finito di immedesimarmi con i sentimenti di Cristo!  Perché vuol dire che tutte le cose che incontriamo nella nostra giornata, tutti i fatti, tutti gli avvenimenti sono dentro il mio rapporto con Cristo. Ecco perché il Cardinale insiste così tanto sulle circostanze della vita presente; ecco perché inizia la Lettera citando gli avvenimenti che ha appena vissuto, andando a condividere, a trovare la comunità cristiana di Erbil, oppure la questione dell’Expo, la questione del Sinodo sulla famiglia, la questione del nuovo umanesimo: cioè tutte le circostanze sono circostanze per scoprire chi è Cristo, perché aumenti la conoscenza di Lui. Se ci fosse solo la prima cosa, rischieremmo alla fine di rimanere come dentro un nostro circuito in cui impariamo una dottrina. In realtà, siccome si tratta di immedesimarsi con uno sguardo, questo ti lancia a 360°, secondo quella bellissima espressione ancora di Paolo della I Lettera ai Tessalonicesi «Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono». Ogni cosa! L’espressione greca è panta, tutte le cose, una per una! Tutto diventa occasione per conoscere chi è Cristo, chi è Cristo per noi. Ecco qui, appunto, il valore delle circostanze.

    4. Arrivo all’ultimo punto: i suggerimenti concreti che il Cardinale dà per educarci al pensiero di Cristo.
    - La prima cosa, che genera tanto conforto, nel leggere questo testo, è che il Cardinale dice che questa Lettera Pastorale, “Educarsi al Pensiero di Cristo”, non comporta fare delle cose in più: è una cosa molto bella, molto interessante, un conforto nella comunità ecclesiale. Non si tratta di aggiungere un’altra iniziativa alle tante cose, belle, che noi facciamo. E questo, diciamo, a mio avviso è un bel modo di intendere il Cri-stianesimo. Il Cristianesimo, appunto, è un altro modo di vivere le cose solite, non è fare altre cose in più ri-spetto agli altri. Non c’è il peso di dover “fare il Cristianesimo”. Ho già tanti problemi nella vita! Non è che Gesù è venuto a portarci un peso in più! È venuto ad alleggerire, è venuto a farci vivere in modo più intenso la realtà, più profonda, più vera, più autentica, più bella! Le cose di ogni giorno. Quindi in questo senso, scoprire la dimensione culturale della fede non è aggiungere altre iniziative a quelle che già si fanno, ma in-vece vuol dire vivere tutte le cose che già facciamo mettendo in evidenza questa dimensione culturale della fede: vivere tutte le cose che già vengono proposte nella vita della comunità con questa attenzione, con que-sta capacità, che c’è nella fede, di rinnovare il nostro modo di sentire: quindi facendo quello che già faccia-mo, ma esplicitando questa capacità della fede di cambiare il sentimento della vita, di cambiare lo sguardo sulla realtà.
   - Qui il Cardinale mette in evidenza due elementi.  Essenzialmente sono, diciamo, con questa affermazione fondamentale: preoccupiamoci di far crescere nelle cose che facciamo, nella vita che già sperimentiamo, e-splicitare,  questa dimensione culturale, questa capacità della fede di cambiare la nostra mentalità. E questo implica due cose, dice il Cardinale: dei soggetti e degli ambiti. Questi sono i due elementi, e molto concreti, che vengono da lui richiamati: i soggetti e gli ambiti di questo lavoro, di questa dimensione culturale della fede da richiamare e fare crescere.

1.  I soggetti: colpiscono per la loro quotidianità.
Il primo soggetto della dimensione culturale della fede, a cui il Cardinale dedica più pagine, è la famiglia, è la vita della famiglia. E qui secondo me il nostro Cardinale riprende alcune affermazioni fondamentali fatte già nel Sinodo dell’ottobre scorso di un anno fa, che lui anche già durante quest’anno ha avuto occasione di approfondire e esplicitare, cioè quest’idea della famiglia come soggetto di vita cristiana, come soggetto prin-cipale di evangelizzazione, di comunicazione del Vangelo. Qui insiste molto il Cardinale dicendo: la famiglia soggetto in quanto famiglia, cioè non in quanto i singoli componenti della famiglia partecipano a diverse iniziative della Parrocchia! Uno fa il catechista, un altro fa un’altra cosa e l’altro fa il lettore e l’altro fa il coro: tutte cose bellissime; ma non è questo l’elemento del “soggetto”, ma è la famiglia in quanto famiglia! Cosa vuol dire questo? Vuol dire che la famiglia ha la grande possibilità oggi, per prima, di superare lo scol-lamento tra la fede e la vita: perché è proprio nell’ambito della vita quotidiana della famiglia che ci si accorge di come la fede può cambiare concretamente il modo di vivere i rapporti, l’essere madre, l’essere padre, il rapporto genitori-figli, l’essere marito, moglie, con tutti i problemi che normalmente bisogna affrontare dal punto di vista affettivo, della crescita, del lavoro; è lì dove la fede si deve vedere, nella sua capacità di inci-dere!  È bellissimo che i membri della famiglia possano fare delle attività in parrocchia, ma prima ancora, in modo più radicale, la cosa importante è che io nella famiglia sperimento che il Vangelo introduce un nuovo modo di vivere i rapporti, di affrontare i problemi, di affrontare le circostanze faticose, di affrontare il pro-blema della perdita del lavoro, di affrontare il problema dei nonni che sono anziani e che nello stesso tempo danno una grandissima testimonianza dentro il nucleo familiare ecc. Davvero la famiglia in questo senso oggi è la grande possibilità per scoprire il nesso profondo tra la vita e la fede. Questo lavoro di far capire im-mediatamente il rapporto tra la fede e la vita non è una cosa che possono far capire immediatamente i preti, i frati e le suore; possono fare tantissimo, ma in fondo solo a partire da questo nucleo fondamentale. Il Cardi-nale dice - non in questo testo, ma in quello che ha scritto in vista del Sinodo, che è uscito quando è stato annunciato l’Ufficio di Vicinanza  Pastorale per i separati, i fedeli separati - dice che la famiglia è l’elemento costituzionale della Chiesa, cioè se non c’è la famiglia non c’è Chiesa, perché mancherebbe l’incarnazione più immediata della novità che Cristo è venuto a portare. Quindi non si può prescindere. E anche le altre vocazioni, ovviamente imprescindibili, il sacerdozio ministeriale e la vita consacrata, sono vocazioni particola-ri a servizio della vocazione fondamentale, che è quella del cristiano che normalmente vive nelle condizioni comuni del vivere e che perciò normalmente si sposa e ha dei figli. Il sacerdote, il frate, la suora sono a servizio della famiglia come soggetto di vita cristiana, di pratica cristiana e perciò di comunicazione del Vangelo. In questo senso poi, dopo aver sottolineato tutti questi elementi, il Cardinale riprende anche il carattere di soggetto di questo cammino per quanto riguarda il clero, per quanto riguarda la vita consacrata. E soprattutto rilevando così l’elemento di riforma molto importante che la Chiesa italiana e in particolare la nostra Chiesa ambrosiana sta mettendo in atto: una formazione del clero che abbia i caratteri di una riforma, caratterizzata soprattutto dal fatto che il clero stesso si riconosce essere innanzitutto un “presbiterio”, una comunità di sacerdoti che servono la comunità ecclesiale.
E poi l’altro grande soggetto che viene ricordato è la Parrocchia come struttura, crocevia fondamentale in cui la Chiesa particolare si struttura sul territorio, e in questo anche il riferimento alle associazioni, ai movimenti, ai vari carismi presenti nella Chiesa che vanno colti come contributo imprescindibile all’animazione della vita ecclesiale, la cui condizione di possibilità è che queste realtà siano appunto integrate all’interno della vita di tutta la comunità ecclesiale.

2. Termino con un breve riferimento agli ambiti.
Mi colpisce soprattutto la scansione, l’ordine che il Cardinale mette nel volere esplicitare gli ambiti della dimensione culturale della fede. Uno si aspetterebbe i centri culturali, legati alle parrocchie, le sale della comunità, le scuole! No, queste qui le mette alla fine. La prima cosa che mette è la Liturgia. È una cosa inte-ressante. Cioè esplicitare la dimensione culturale della fede nella Liturgia. Ed è verissimo. Se ci pensate bene, la Liturgia, se è compresa nel suo significato profondo descrive non solo i misteri della vita di Cristo, ma descrive anche la nostra vita illuminata dai misteri della vita di Cristo. Se voi ci pensate nella Liturgia si toc-cano tutte le dimensioni umane: la nascita, la crescita, e la malattia, l’affetto, la generazione fino ad arrivare alla morte; dentro la Liturgia c’è un modo di descrivere l’umano, di sentire l’umano. I Sacramenti e la Litur-gia descrivono tutti i momenti della vita, non c’è nulla che rimanga fuori, da quello che un uomo può speri-mentare, e in cui appunto Cristo si fa presente, permettendoci di leggere la nostra avventura umana alla luce dei suoi misteri. Legato a questo c’è anche la catechesi come proprio elemento pedagogico, permanente, che dovrebbe aiutarci a esplicitare questa dimensione culturale della fede, soprattutto facendoci vedere la capaci-tà della fede di rispondere alle grandi domande che oggi incontriamo a livello umano, a livello sociale, a li-vello cosmico. Pensate, per esempio, all’intervento che il Papa ha fatto con la Laudato si’. Anche questa En-ciclica, che cos’è se non un modo di esplicitare il pensiero di Cristo sulla realtà cosmica? cioè far vedere che la fede arriva fino a giudicare questo, a farti considerare in modo diverso questa situazione.

- E poi un’altra cosa che sorprende, secondo me, è quando il Cardinale mette in evidenza il rapporto, il nesso tra cultura, come tra carità e cultura, mettendo in evidenza che la nostra Diocesi, per esempio, ha tantissime iniziative di carattere caritativo, veramente lodevole e di grande spessore, di grande qualità. Pensate come questo diventerebbe ancora più incidente se le iniziative di carità esplicitassero sempre di più la cultura che questa carità genera: che la carità diventa veramente un nuovo modo di sentire l’altro, di sentire i suoi pro-blemi, di permettere di accoglierlo, di rilanciare la sua vita! Vivendo fino in fondo la carità cristiana, ci si accorge che nella carità si comunica questa sensibilità di Cristo! La carità produce un nuovo modo di sentire la vita. Fino poi ad arrivare certamente anche agli ambiti, quelli più esplicitamente culturali educativi: quindi il richiamo alla realtà della scuola, alla realtà dei centri culturali, delle sale di comunità, come anche questa iniziativa che tra poco inizierà per tutta la Diocesi, questi “Dialoghi di vita buona”, che è proprio un modo per voler esplicitare la dimensione culturale della fede in dialogo di 360° con tutto e con tutti. Ci saranno questi incontri in cui ci si pone il grande problema del nostro tempo. Sicuramente un’epoca è finita. Noi non sappiamo bene come descrivere quello che stiamo vivendo adesso, perché è chiaro che l’epoca moderna è finita, è arrivata al traguardo, però non sappiamo come trattarla. Tant’è vero che il nostro tempo lo chiamiamo post-moderno, che è un modo per dire che non sappiamo come chiamarlo. Che cosa vuol dire, come interroga la fede? Che in questo la fede abbia capacità di dialogare con tutti coloro che vogliono lavorare per la vita buona di tutti!  Qui mi sembra che questa sia una cifra sintetica di questa proposta pastorale che il Cardinale sta facendo alla nostra Diocesi. Quindi, in definitiva, per rispondere alla domanda, credo che quello che il Cardinale chiede  è arrivare fino in fondo all’incontro con Cristo. Stare con Lui. Fare che il rapporto con Lui, e quindi l’essere insieme tra di noi, permetta all’intelligenza della fede di diventare una nuova intelligenza di tutta la realtà.

(Il don che introduce): Grazie per questa presentazione. Lasciamo spazio adesso alle vostre domande.

   Domanda: Perché ha scelto Pietro, piuttosto che Giovanni? Qui dice, a pag. 19: «L’apostolo Pietro è certamente una delle figure più appassionate alla sequela di Gesù. Una sequela che deve sempre misurarsi con una libertà “costretta” da Gesù e dalle circostanze a ridire il proprio “sì” iniziale». Così aveva fatto anche Giovanni. Come mai sceglie lui, Pietro?
Mons. Martinelli.
Questa domanda sarebbe da fare al Cardinale, o forse direttamente a nostro Signore, perché entriamo nel mi-stero dei misteri, cioè perché Lui chiama uno piuttosto che un altro; perché appunto gli viene dato anche questo compito, così grande per Pietro. Interessante! Il Cardinale ha scelto lui… Certamente, questo, penso che faccia proprio un po’ eco al fatto che Gesù stesso abbia fatto questa scelta. Se devo dire io come reagi-sco, tanto a me piace tantissimo Giovanni, proprio come evangelista, come sensibilità; me lo immagino ap-punto come più giovane, anche se non era assolutamente sdolcinato perché sappiamo che lui era uno dei “boanerghes”, che voleva dire  “figli del tuono”; quindi, non penso che Giovanni sia stato questo ragazzetto molto teneruccio, normale  visto che aveva come soprannome “figlio del tuono” e allora voleva dire che  fa-ceva abbastanza con rumore, quanto meno; però certamente si immagina proprio lui come l’emblema dell’affezione alla persona di Cristo, e anche questa affezione che lo ha portato a riflettere così profonda-mente anche dal punto di vista teologico. Giovanni è il teologo, dal punto di vista, diciamo, degli Apostoli; scrive anche il Vangelo, il suo Vangelo lo scrive per ultimo. Non è un Vangelo fondato sulla cronologia dei fatti come invece erano i sinottici, è invece proprio la cronologia riflessiva, mette in evidenza la logica dell’amore che ha imparato nell’incontro con Cristo. E poi forse anche questo è tipico dell’amore; questo stare dietro, lavorare dietro, a sostegno…; tanto  è molto interessante che negli Atti degli Apostoli Pietro e Giovanni vengono spesso presentati insieme come grandi compagni. Però è interessante che Cristo abbia scelto per affidare il Suo gregge uno che così palesemente ha mostrato anche tutte le debolezze umane: que-sto è grandioso! In fondo Pietro ha dietro le spalle Giovanni! Pietro sa di poter contare su Giovanni. Però Cristo ha scelto lui nella sua sfacciata debolezza, non so come dire, sfacciata impetuosità umana. Cristo ha voluto scegliere questo personaggio che ci ha fatto vedere di più come si fa a sbagliare, come si fa a rico-minciare. E quindi ha scelto quello che era  in fondo più vicino alla nostra vita quotidiana. Un buon pescato-re.

    Intervento. Ci hai detto che la famiglia è segno dell’Incarnazione. Ma allora, la crisi della famiglia che ci portiamo da così tanti anni è quindi il segno della mancanza di fede. E il fatto che la famiglia sia così combattuta, è proprio questa lotta contro l’Incarnazione.
Mons. Martinelli:
È interessante, è bella questa riflessione. Anche a me ha molto colpito quando, soprattutto leggendo quell’intervento del Cardinale in vista del Sinodo, ha ripreso questa idea fondamentale, che era già stata e-nucleata un po’ da monsignor Corecco. Perché? Perché non basta la Chiesa fatta di preti, di frati e di suore. E sarebbe una Chiesa che diventerebbe solo profetica di qualcosa che non c’è ancora, ma mancherebbe della sua figura più incarnatoria. In questo senso la famiglia è il luogo primario dove io sperimento che Cristo c’entra con la vita di tutti i giorni. Per questo, diciamo, tutta l’epoca moderna per certi aspetti e anche la sto-ria, i processi di secolarizzazione, pur con tutto il bene che anche l’epoca moderna ha portato - non voglio assolutamente demonizzare secoli di storia anche perché il Signore è il Signore della storia, quindi non è che il Signore si è distratto per cinque secoli  e son venuti fuori tutti questo macelli, il Signore è presente anche nella nostra storia anche se in modo drammatico, evidentemente; la storia non è mai la deduzione di qualche cosa, è sempre incontro drammatico tra libertà -, però è certo che dentro la modernità c’è anche il percorso della secolarizzazione tra cui si genera questa divaricazione, questa estraneità tra la fede e la vita. Prima at-traverso l’elemento di privatizzazione: la prima grande secolarizzazione è la fede come fatto privato; il fatto che non deve c’entrare, il famoso  “Etsi Deus non daretur”, “Vivere come se Dio non ci fosse”. La “Res pu-blica”, le cose comuni devono essere vissute come se Dio non ci fosse. Se poi qualcuno vuol crederci, ci creda per conto suo. E questo mi fa venire in mente una cosa impressionante. Perché la Chiesa, per esempio nell’epoca moderna, intendo, diciamo, dal ‘500 in avanti, soprattutto nella teologia barocca post-tridentina – il Concilio di Trento ha fatto dei testi assolutamente mirabili ed equilibrati, la teologia successiva probabil-mente ha preso qualche contraccolpo proprio per il grande processo di secolarizzazione che era in atto in Eu-ropa -, però è impressionante, per esempio, che all’interno della Chiesa…, infatti quando si diceva “la Chie-sa”, anche dal punto di vista linguistico, la Chiesa veniva fatta coincidere con la gerarchia essenzialmente, per esempio a livello vocazionale. La parola vocazione di per sé è sempre stata riferita a chi va in convento e a chi va in seminario. Avere la vocazione – «Quello lì c’ha la vocazione!» –, uno che cosa pensa? Che va in Seminario o che va in convento. Non pensa né alla vocazione universale alla santità di tutti i fedeli di cui ha parlato il Concilio Vaticano II nel V capitolo della Lumen Gentium, tanto meno va a pensare alla vocazione del matrimonio, alla famiglia. È impressionante, proprio nel Sinodo ci sono stati alcuni interventi che hanno messo in evidenza come non si riesce a declinare cosa voglia dire il matrimonio come vocazione, perché siamo stati abituati a usare la parola vocazione in riferimento solo per alcune vocazioni, che per altro sono assolutamente minoritarie nella Chiesa. Quindi è impressionante che nella modernità anche il linguaggio abbia baricentrato l’idea vocazionale solo su questi, per cui la famiglia proprio è  stata sentita meno come realtà fondamentale. Questo è il motivo per cui siamo qui adesso, siamo un po’ alla resa dei conti, diciamo così. Anche tutto il grande recupero, veramente formidabile, fatto prima del Concilio Vaticano II con la famosa “teologia del laicato”, poi con i testi del Vaticano II che hanno ripreso questo elemento, cioè che la vocazione fondamentale del cristiano è, il cristiano è il battezzato, è un mandato nel mondo, non è colui che esce dal mondo per andare in convento, questa è una vocazione particolare, ma la vocazione fondamentale è il bat-tezzato. L’uomo nuovo di cui parla San Paolo non è il frate e la suora: l’uomo nuovo è il battezzato. Pur es-sendoci stata una intuizione anche teologica, questa cosa qua ha come trovato difficoltà poi nel sapersi dire. Adesso sicuramente anche proprio davanti a queste difficoltà siamo risvegliati a questa coscienza fondamen-tale. E quindi scopriamo veramente che occorre proprio ripartire dalla realtà della famiglia come soggetto di evangelizzazione. Che non toglie che la famiglia deve essere oggetto di attenzione, di cura pastorale ecc., ma il problema è che il Cristianesimo si vede, la sua verità, dalla capacità di cambiare la vita quotidiana di tutti. E ovviamente si può capire perché un certo filone radicalizzato della secolarizzazione va a colpire proprio la famiglia. Perché lì è il luogo dove si gioca la partita, la partita della fede. Quindi da una parte il fatto che il Cristianesimo, certe forme diciamo del Cristianesimo moderno, si sia attestato a margine della vita comune degli uomini, e d’altra parte, certo, il processo della secolarizzazione è andato proprio lì, a diventare più vio-lento, proprio nel separare l’elemento della fede dalla vita quotidiana degli affetti.  Per questo è da lì che ri-comincia. E credo che il fatto che negli ultimi decenni la Chiesa sia tornata per ben tre volte con dei Sinodi sulla famiglia fa capire che lì si gioca la partita fondamentale del Cristianesimo.

Intervento: Carol Wojtyla parlava di “Chiesa domestica”, giusto?
E poi volevo dire anche questo: ritornando a Giovanni, che è stato evidenziato dall’amico, quando Ge-sù ha detto: «Maria, ecco tuo figlio» e a Giovanni «Figlio, ecco tua madre», per me in quel momento si è formato questo concetto anche di famiglia e di fondazione della Chiesa, perché lì, in questo dialogo a tre, diciamo a due o a tre, si è creato questo, come dire, “Andate avanti così”. La Madonna è fonda-mentale nella Chiesa, e Giovanni ha il suo ruolo. E poi il momento in cui è avvenuto! Il momento finale proprio, dove poi è successo quello che è successo.
Mons. Martinelli:
Sì, è una osservazione molto bella questa.
Beh, innanzitutto perché, ringrazio molto per avere esplicitato la figura di Maria, perché da questo punto di vista penso che in questi due anni dovremmo pregare molto la Madonna, penso che Lei ci possa insegnare molto i pensieri, i sentimenti di Cristo. Forse li ha scrutati, proprio per la vicinanza anche umana alla persona Cristo. E senz’altro credo che noi facciamo bene a pregare la Madonna perché ci aiuti a far crescere in noi i pensieri e i sentimenti di Cristo avendoli Lei scrutati, fin da quando Gesù era piccolino.
E poi sulla Chiesa domestica: questa qua in realtà è una affermazione, penso che sia di Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa, antiocheno, che ha affermato, penso per la prima volta, questa formula, ripresa poi nel Concilio, e adesso, approfondita ancora dall’attuale magistero e anche dalla ricerca teologica. Mi sembra molto bello. Questa ha un po’ un duplice significato, secondo me: ha il significato di dire che in fondo la Chiesa stessa è una famiglia, e che ogni famiglia perciò è chiamata a auto-realizzare la Chiesa proprio nella capacità della fede di farci rileggere, vivere, interpretare la realtà quotidiana.
E poi, su questa scena di Giovanni, al capitolo 19, questo scambio drammatico e dolcissimo nello stesso tempo che Gesù chiede a Maria e a Giovanni. Qui è veramente l’inizio dell’uomo nuovo, della nuova creatu-ra; perché a Maria si chiede, quando Gesù dice a Lei: «Ecco tuo figlio!», questo implica che appunto deve accettare che il Figlio che è uscito dal suo grembo muoia: “Son tuo figlio, adesso non son più io, adesso io muoio!”: è il modo con cui la Madonna fa suo il sacrificio di Cristo. È apparentemente una distanza, enorme, «Ecco tuo figlio!”» come dire “Adesso guarda da un’altra parte!”, l’invita a guardare Giovanni: in realtà è il modo più intimo con cui Gesù associa a sé il mistero della madre. Allora in questo modo dilata la maternità di Maria, quindi dilata il mistero della Chiesa. Deve essere non solo la madre fisica di Gesù, appunto la ma-dre della Chiesa, la madre anche dell’uomo nuovo. Come protocellula della Chiesa.  È qui Giovanni in qual-che modo rappresenta un po’ ciascuno di noi: sotto la croce viene affidato alla Madonna.
Poi, però, l’ultima cosa che vorrei sottolineare è che non a caso, collegandomi all’osservazione di prima, la Madonna è sposata, ed è vergine. Qui  abbiamo la coincidenza delle due forme vocazionali fondamentali, e per questo il primato mariano nella Chiesa deve sempre esserci da questo punto di vista. E anche Pietro, di-ceva Von Balthasar, anche Pietro è un membro della Chiesa mariana; e anche tutto quello che può fare, lo può fare perché appunto dietro ha Giovanni e Maria che lo sostengono. In questo senso è molto interessante perché Maria è nello stesso tempo appunto sposata e vergine e quindi in un certo senso ogni vocazione può trovare lì il suo prototipo, il suo inizio, il suo continuo cominciamento.

Domanda: Avere il pensiero di Cristo genera appunto, tu hai usato la categoria di “giudizio”, un giudi-zio sulle cose. Il Cardinale in un incontro confessava che si stupisce che questa categoria faccia così fa-tica a emergere, come se avesse paura di esprimere un giudizio sulle cose, sulla realtà, quasi per non turbare il sentire comune. Dall’altra, avere il pensiero di Cristo, vedere Cristo in tutte le cose. Spesso, parlo per me, fa un po’fatica a venire in mente questa cosa: c’è più l’idea, appunto, di pensare come Gesù, ma non tanto di vedere Lui in tutte le cose. Tu come fai a vedere Cristo in tutte le cose?
Mons. Martinelli: Anch’io ho sentito parecchie volte il Cardinale fare questa osservazione, non so se nella stessa volta…, anche più volte; anche nel Consiglio episcopale milanese, quando ha ripreso un po’ questa espressione. E io credo che da una parte c’è proprio un equivoco, abbiamo come paura del termine “giudizio”, del termine “giudicare”, perché rischiamo di caricarlo moralisticamente,  cioè è il giudizio nel senso del condannare. Invece qui il giudizio è nel senso proprio, tecnico della parola, cioè riconoscere la realtà, capire quello che hai davanti: giudicare vuol dire “Renditi conto, sappi dare il nome alle cose, chiama le cose con il proprio nome!”. Cosa senza la quale non si può fare niente nella vita, perché noi ci muoviamo in base ai giudizi che abbiamo, non c’è niente da fare. Quindi dire che il Cristianesimo non deve giudicare è come dire che il Cristianesimo non deve far niente, perché in realtà noi tutti ci muoviamo nella vita in base a dei giudizi che abbiamo sul reale; per cui: «Questo vale la pena, questo non vale la pena; qui rischio, qui non rischio; qui mi impegno, qui non mi impegno»; perché? Perché abbiamo dei giudizi di valore. Quindi dire che la fede non deve diventare un giudizio vuol dire che la fede non deve incidere nella vita! Questa è la prima cosa: quindi è un equivoco di fondo.
E l’altro, secondo me, è come un timore che si ha perché si ha paura di sbagliare. Noi abbiamo paura di sba-gliare nel dare un giudizio; prima di dire una cosa. Abbiamo un po’ paura, magari, di essere presuntuosi o inautentici. E secondo me questo è un rischio che ci sta bene, però non deve fermarci, nel senso che, come per Pietro e per gli altri, è un continuo rimettersi in discussione. Quindi anche i giudizi, giustamente seguendo Cristo, uno continuerà a rivederli!  Non dovranno mai essere dei giudizi, appunto, conclusivi, ma saranno dei giudizi che continuamente dovranno approfondirsi. Allora mi sembra che questo ci mette un po’ in pace: nel senso che dobbiamo giudicare, ma dobbiamo anche essere disposti a mettere in discussione, ad andare oltre, a re-imparare di nuovo. In fondo questa è l’esperienza di Pietro e degli altri: cioè molte volte si accorgono che riducono il pensiero di Cristo ad un proprio pensiero! Lo mettono in discussione, si lasciano mettere in discussione da Cristo. Allora si ricomincia. E in questo senso è appunto un educarsi.
Ci si educa, da quando si nasce fin quando si muove. Tutto il cammino della vita è un percorso di educazio-ne, e noi saremmo sempre sorpresi da Cristo! Secondo me, se guardiamo in questa prospettiva, ci si mette il cuore in pace, nel senso che si può anche sbagliare, e infatti cercheremo di… Per questo il sentire con Cristo è sempre anche un sentire con la Chiesa; e quindi ci si aiuta a camminare insieme, insieme ci si aiuta di più a immedesimarci nel pensiero di Cristo e nei suoi sentimenti; ci si aiuta, ci si corregge di più insieme anche nel senso etimologico - ci si regge insieme - per camminare, imparare, per giudicare le cose. In questo senso secondo me è molto importante, per esempio, che nella comunità cristiana si impari a giudicare insieme, a guardare insieme la realtà: «Come stiamo di fronte a questa cosa?». Questo è il Sinodo. Il Sinodo che cos’è? È camminare insieme e come vedete, anche se la stampa poi esagera sempre abbastanza volentieri, giusta-mente i Padri discutono, e poi nella Chiesa c’è un’istanza che raccoglierà tutto questo e dirà: «Su questo punto possiamo prendere questa decisione». Ma è molto bello che nel Sinodo i Padri sinodali discutano: o-gnuno cerca di dire le proprie ragioni. Cioè non è un automatismo, non è una deduzione logica, ferrea: c’è sempre di mezzo la libertà; la libertà di confrontarsi, di paragonarsi, di dire la ragione: «Io la vedo così, per questo, per questo, per quest’altro» e l’altro dice «Io la vedo così per questo e per quest’altro». Allora si cercherà di avvicinarsi, di capire di più. Così allora il sentire con Cristo diventa un sentire con la Chiesa, un sentire insieme, dove appunto si cerca di capire che cosa Cristo ci sta chiedendo attraverso la situazione che la Provvidenza ci chiede di affrontare. In questo senso mi sembra che la paura di sbagliare non ti blocca più. Insieme ci possiamo correggere, camminare insieme. Mi sembra che in questo senso il Papa e il Sinodo ci stanno dando una bella immagine di cosa voglia dire imparare a giudicare insieme la realtà. C’è un problema, non fuggiamo di fronte ai problemi, impariamo a guardarlo insieme e ci interroghiamo su cosa Cristo ci sta chiedendo, considerando i problemi che dobbiamo affrontare. E qui scopriremo di più chi è Cristo per noi, proprio accettando di affrontare queste sfide, accettandole insieme, come Chiesa, come corpo di Cristo in cammino, appunto, come Sinodo. Sýnodos: camminare insieme.
Pensare Cristo in tutte le cose. È proprio questo secondo aspetto. Cioè, quello che sta succedendo adesso nel Sinodo, poi è una esplicitazione di un metodo proprio della vita cristiana. Cioè pensare Cristo in tutte le cose vuol dire riconoscere che le cose, le circostanze, le condizioni, le situazioni in cui noi ci troviamo non sono esterne alla nostra fede. Una delle cose, secondo me, che più hanno bloccato il Cristianesimo in questi secoli è aver pensato il Cristianesimo come una teoria astratta. Si può pensare anche i dogmi così, solo che in realtà i dogmi non sono questa roba qua!. Uno pensa che i dogmi sono la teoria vera che poi…, il famoso contrasto tra dottrina e pastorale, in cui ogni tanto si cade. Ma questa è una struttura sbagliata di pensiero perché non c’è una verità astratta, un ideale astratto e poi c’è la realtà in cui bisogna cercare di applicare, più o meno bene come si riescono, le cose. In realtà il Cristianesimo è il Verbo che si fa carne, Allora vuol dire che tutta la carne, cioè tutta la realtà è da guardare nella prospettiva dell’Incarnazione; cioè non c’è niente che sia e-straneo a questo! Per questo io posso guardare la situazione come una realtà esterna, dire «Io ho la mia fede in Gesù e poi c’è la realtà, va be’; cerchiamo di viverla, però…» E questo è vero, c’è stato un modo equivoco anche di vivere. Per esempio su questo, non so se ci sono altri religiosi qui presenti in sala, la vita religiosa ha rischiato nell’epoca moderna, in alcune fasi, questa figura, anche con l’idea dell’uscire dal mondo. Come dire: «Io non c’entro con il mondo. Io sono fuori». E questo ha rischiato di dare una concezione del Cristianesimo in cui la realtà non è originariamente legata al mistero della fede. Da quando il Verbo si è fatto carne, per arrivare al Verbo bisogna passare attraverso la carne! Non c’è niente da fare, non c’è un’altra via. La carne è la mia vita quotidiana, sono i problemi che affronto! Allora vuol dire che Cristo si fa conoscere a me attraverso la circostanza della vita che la Provvidenza mi chiede di affrontare. E questo, tra l’altro, rende interessante la situazione: anche quelle più problematiche. Io davanti a un problema che mi si pone di fronte posso dire: «O che disastro!» oppure posso dire: «Chissà come Gesù Cristo riuscirà a passare anche attraverso questo macello che devo incontrare, che devo attraversare!». Poi non lo so, cioè non è che lo decido a priori: ci devo passare dentro! Allora lì Cristo Lo conoscerò attraverso quelle cose che devo affrontare. Ma per fare questo devo riconoscere che la carne, la circostanza, è già da sempre nella prospettiva dell’incontro con Cristo, perché il Verbo si è fatto carne. Allora tutta la carne, cioè le circostanze, sono il luogo dove il Verbo di Dio si manifesta. Allora tutto diventa interessante. Anche questa situazione così pro-blematica relativa alla famiglia: io voglio proprio vedere come ne verremo fuori! Scopriremo di più Cristo dentro questa cosa qua! Dentro le grandi obiezioni che l’epoca moderna ci sta ponendo davanti: ci obblighe-ranno ad andare ancora più profondamente a scoprire chi è Cristo, per noi! E in genere, invece, quando non ci sono problemi ci si addormenta sulle cose; invece la realtà ti provoca, e ti fa scoprire di più chi è Cristo. Questo l’hanno scoperto subito i discepoli, all’inizio. Già negli Atti degli Apostoli quando… “Si può mangiar la carne offerte agli idoli oppure no”: erano dei problemi che li mandavano in confusione. Hanno avuto il coraggio di dire: «Ma, cosa Cristo ci fa imparare da questa situazione che non sappiamo venirne fuori! Se siamo insieme, apparteniamo alla Chiesa, come dire al flusso di vita che in duemila anni lo Spirito Santo ha fatto sgorgare, questa situazione la affronteremo in questa maniera, quindi scopriremo Cristo. Sarà l’avventura di una nuova conoscenza di Lui». Ecco, ma la vera condizione è proprio la frase dell’Incarnazione. Il Vangelo di Giovanni è 1, 14: «Il Verbo si è fatto carne!»: vuol dire che per andare al Verbo, non c’è niente da fare, la via è la carne, cioè la vita quotidiana.

Trascrizione non rivista dall’autore - Amelia