La quaresima ormai alle porte …

Lo sappiamo bene: quaresima è tempo di conversione.  Ma cosa sia, per davvero, la conversione forse ci è un po’ meno chiaro. Benissimo digiuni e penitenze, benissimo impegni spirituali e materiali, benissimo tutto ciò che ci ricorda che questi quaranta giorni devono avere un tocco particolare per prepararci contemplare e vivere in noi la Pasqua di Gesù. Benissimo tutto questo, a condizione che non siamo impegni e digiuni fine a se stessi. Voglio dire: se tolgo qualcosa è per condividerlo e non solo per saggiare la mia forza di volontà; se mi impegno in qualcosa è per semplificarmi e andare al centro della fede, non per assicurarmi un buon punteggio nella classifica finale del giudizio universale.

In una frase: la conversione è un cambiamento di investimento delle proprie energie.

Per cosa/chi investo le mie forze?

Per cosa/chi mi gioco nell’amore?

Per cosa/chi dono il mio tempo?

Per cosa/chi indirizzo le mie passioni?

Conversione è investire tutte le proprie forze sulla Parola di Gesù, senza tentennamenti, senza paura, senza ritorni. E’ orientare la vita lasciandosi portare dal soffio dello Spirito. E’ togliere ciò che appesantisce, sciogliere ciò che mi lega, ordinare ciò che mi confonde. Maria, madre nostra e madre della speranza, aggiunga ciò che manca alla nostra preghiera

 

PREGHIAMO:

 

Ti preghiamo, Signore Gesù,  la Tua Parola sia guida  nel nostro cammino di conversione. Con Te attraverseremo il deserto  e ci addestreremo all’essenzialità. Lasceremo che lo Spirito  sia lo scalpello che ci lavora, colpo dopo colpo  vedremo emergere in noi la Tua immagine, scopriremo la Tua bellezza  dietro alle nostre fragilità. Faremo esperienza che il Tuo amore  è più forte del nostro peccato e più ostinato delle nostre fughe.  Scopriremo che il Tuo perdono  scioglie quei nodi del cuore  che da soli non possiamo disfare. Ci accorgeremo che tutto questo è possibile. Con la Tua Parola nel cuore  sconfiggeremo il maligno. Maria, madre Tua e madre nostra,  aggiunga ciò che manca alla nostra preghiera.  Amen.


ROSARIO “QUARESIMA 2014”

Misteri dolorosi

 

Guida: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. In questo tempo di quaresima vogliamo pregare con le parole di papa Francesco, che nel suo Messaggio ci offre il senso profondo di un cammino autentico verso la Pasqua.

 

 

Lettore: Cari fratelli e sorelle, in occasione della Quaresima, vi offro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e comunitario di conversione. Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). L’Apostolo si rivolge ai cristiani di Corinto per incoraggiarli ad essere generosi nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme che si trovano nel bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invito alla povertà, a una vita povera in senso evangelico?

 

 

Primo mistero doloroso:

L’AGONIA DI GESÙ NEL GETSEMANI

 

Lettore: Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi; si è spogliato, “svuotato”, per rendersi in tutto simile a noi. Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è grazia, generosità, desiderio di prossimità, e non esita a donarsi e sacrificarsi per le creature amate. La carità, l’amore è condividere in tutto la sorte dell’amato. L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze. E Dio ha fatto questo con noi. Gesù, infatti, «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Gaudium et spes, 22).

Padre nostro …. 10 Ave Maria … Gloria

 

Secondo mistero doloroso:

LA FLAGELLAZIONE DI GESÙ

 

Lettore: Che cos’è allora questa povertà con cui Gesù ci libera e ci rende ricchi? È proprio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi come il Buon Samaritano che si avvicina a quell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (cfr Lc 10,25ss). Ciò che ci dà vera libertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di tenerezza e di condivisione. La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio. La ricchezza di Gesù è il suo essere il Figlio, la sua relazione unica con il Padre… Quando Gesù ci invita a prendere su di noi il suo “giogo soave”, ci invita ad arricchirci di questa sua “ricca povertà” e “povera ricchezza”, a condividere con Lui il suo Spirito filiale e fraterno, a diventare figli nel Figlio, fratelli nel Fratello Primogenito (cfr Rm 8,29).

Padre nostro …. 10 Ave Maria … Gloria

 

Terzo mistero doloroso:

GESÙ È INCORONATO DI SPINE

 

Lettore: Ad imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene carico e a operare concretamente per alleviarle. La miseria non coincide con la povertà… Possiamo distinguere tre tipi di miseria: la miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale. La miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale. La miseria materiale  è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana … Pertanto, è necessario che le coscienze si convertano alla giustizia, all’uguaglianza, alla sobrietà e alla condivisione.

Padre nostro …. 10 Ave Maria … Gloria

 

Quarto mistero doloroso:

GESÙ È CARICATO DELLA CROCE E SALE IL CALVARIO

 

Lettore: Non meno preoccupante è la miseria morale, che consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato. Quante famiglie sono nell’angoscia perché qualcuno dei membri – spesso giovane – è soggiogato dall’alcol, dalla droga, dal gioco, dalla pornografia! … In questi casi la miseria morale può ben chiamarsi suicidio incipiente. Questa forma di miseria, che è anche causa di rovina economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore.

Padre nostro …. 10 Ave Maria … Gloria

 

Quinto mistero doloroso:

GESÙ MUORE IN CROCE PER NOI

 

Lettore: La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fine di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà. Non dimentichiamo che la vera povertà duole: non sarebbe valida una spogliazione senza questa dimensione penitenziale. Diffido dell’elemosina che non costa e che non duole.

Padre nostro …. 10 Ave Maria … Gloria

 

 

Guida: Concludiamo questa nostra preghiera con l’augurio finale dei papa Francesco: Lo Spirito Santo, grazie al quale «[siamo] come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2 Cor  6,10), sostenga questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la responsabilità verso la miseria umana, per diventare misericordiosi e operatori di misericordia. Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.

 

 

MA IO VI DICO …

 

Il discorso della Montagna (Mt 5-7) è preceduto dalle beatitudini (Mt 5,1-12), che sappiamo essere non soltanto un ideale da vivere, ma ancor prima una proclamazione che il Regno di Dio è arrivato. Ritroviamo così uno schema comune a tutti i discorsi morali del Nuovo Testamento: prima il vangelo e poi la legge, prima il dono di Dio e poi la risposta dell’uomo. Se non tenessimo presente questo aspetto essenziale, rischieremmo di fraintendere il discorso di Matteo, correndo il rischio di ridurlo a una nuova casistica e a un nuovo elenco di leggi che è necessario osservare per essere giusti di fronte a Dio.

 

Due elementi vanno subito rilevati.

Primo: all’inizio del discorso vengono indicati due atteggiamenti in apparenza contrastanti. Da una parte la pretesa di essere in continuità con la legge antica: “Non crediate che sia venuto ad abolire la legge e i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare il pieno compimento” (5,17). Dall’altra, un chiaro e ripetuto atteggiamento di rottura: “Avete inteso che fu detto agli antichi... Ma io vi dico” (5,21). Una frase poi particolarmente importante è quella che si legge al v. 20: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (5,20). Quest’ultimo versetto lascia intravedere tre giustizie: la giustizia degli scribi, dei farisei, dei discepoli. Parlando di giustizia superiore l’evangelista non intende una superiorità nella quantità o nel rigore (più digiuno, più elemosina, più preghiera) ma una superiorità nella qualità. E per giustizia non intende ciò che noi comunemente intendiamo (e cioè la parità fra il dare e l’avere nei rapporti fra uomini), ma più ampiamente la volontà di Dio.

 

Possiamo già dire che per Matteo il messaggio morale di Gesù è in continuità con l’Antico Testamento, perché ne recupera il centro e la tensione. Non introduce nella legge novità mutuate altrove, e non fa correzioni in base a una logica che gli è estranea: ne recupera, al contrario, l’intenzione di fondo e la porta a compimento. Continuità, dunque, ma continuità nella novità. La novità è racchiusa proprio nella stessa parola “compiere”, che non significa semplicemente conservare né semplicemente eseguire, ma portare a compimento. L’Antico Testamento è una realtà aperta. Per essere fedeli all’Antico Testamento occorre in qualche modo andare oltre, non per abolirlo ma per portarlo a maturazione.

 

Gesù però va oltre l’aspetto del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Egli si presenta come il vero interprete della legge, nel senso che la compie e giustamente sa rinnovarla. Come i profeti che l’hanno preceduto, anche Gesù si sforza di recuperare il centro della volontà di Dio, e questa è già una prima ragione per cui si può chiamare “superiore” la giustizia del discepolo: la riduzione dei precetti a un centro semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento. Discutendo il caso del divorzio (5,31), Gesù cita un testo del Deuteronomio (24,1). Ma sebbene consapevole che il Deuteronomio è parola di Dio, egli lo giudica secondario rispetto a un passo di Genesi (1,27; 2,24; cfr. Mt 19,3-9). C’è dunque testo e testo. Con questo Gesù offre agli scribi una lezione di metodo: per cogliere la volontà di Dio occorre essere capaci di una lettura globale della Scrittura: una lettura che sappia distinguere fra la logica di fondo e le sue espressioni parziali, provvisorie e fondamentalmente caduche.

 

Leggiamo l’imperativo di amare i nemici (Mt 5,44), un imperativo che si trova nel contesto delle sei sintesi del discorso della montagna: “A voi è stato detto... ma io vi dico”. Questo già significa che l’amore al nemico segna la differenza (la vera differenza!) fra il cristianesimo e il mondo, il cristiano e gli altri. Il termine differenza è forse troppo debole: il ma avversativo suggerisce l’idea di opposizione: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”: amare e pregare è molto di più del semplice perdono, molto di più di un semplice rifiuto di rispondere alla violenza con la violenza. Amare significa, qui come altrove, amore pieno, attivo, solidale, preoccupato, che non attende di essere ricambiato per donarsi.

Non si aspetta il ravvedimento del nemico per poi amarlo, ma lo si ama già prima. Se si desidera il suo ravvedimento - e per questo si prega - è perché già ci si sente responsabili nei suoi confronti. Così inteso, l’amore al nemico è la punta dell’amore del prossimo, in un certo senso lo specchio e la misura della sua verità. L’amore al nemico, infatti, evidenzia - come non accade in nessun’altra forma di amore - le note profonde, strutturali di ogni autentico amore. Per esempio, la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del “prossimo” si dilata sino a rinchiudere anche il più lontano: chi è più lontano del nemico? E lo stesso si dica della nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore: nell’amore al nemico essa splende in tutta la sua chiarezza e la sua forza: tanto forte da far superare ogni distanza. Matteo parla di nemico e di persecutori: il primo termine è generale, il secondo suggerisce che si pensa al. nemico della comunità più che al nemico strettamente personale. Due le motivazioni che sorreggono l’imperativo evangelico dell’amore ai nemici. La prima (che però nel testo è detta per seconda) è di mostrare quel “di più” di giustizia di cui si è parlato in 5,20. Si tratta in altre parole di mostrare la propria identità di discepolo e la propria appartenenza a Gesù. L’amore al nemico è un atteggiamento che rivela chi si è: se pubblicani, pagani o figli di Dio.

 

La seconda motivazione si riferisce a Dio direttamente: “Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Chi ama il proprio nemico è figlio di Dio, perché è nella somiglianza che si riconosce la parentela: la somiglianza di comportamento, di indole, di pensiero, di natura. Amare tutti - giusti e ingiusti, buoni e cattivi - è qualità divina, chi la fa propria mostra di essere veramente figlio di Dio. La sorpresa di questa profonda qualità divina è colta nella creazione semplicemente: il sole sorge per i buoni e per i cattivi, e la pioggia feconda i campi dei giusti e degli ingiusti. Questo comportamento è legge di creazione. Come potremmo immaginare il mondo retto da un comportamento diverso? Ma questa è anche la legge dell’amore di Dio. Come potremmo immaginarlo diverso?

 

 

 

Preghiamo:O Dio, che riveli la pienezza della legge nella giustizia nuova fondata sull’amore, fa’ che il popolo cristiano, radunato per offrirti il sacrificio perfetto, sia coerente con le esigenze del Vangelo, e diventi per ogni uomo segno di riconciliazione e di pace. Per Cristo nostro Signore. Amen


La quaresima ormai alle porte …

Lo sappiamo bene: quaresima è tempo di conversione.  Ma cosa sia, per davvero, la conversione forse ci è un po’ meno chiaro. Benissimo digiuni e penitenze, benissimo impegni spirituali e materiali, benissimo tutto ciò che ci ricorda che questi quaranta giorni devono avere un tocco particolare per prepararci contemplare e vivere in noi la Pasqua di Gesù. Benissimo tutto questo, a condizione che non siamo impegni e digiuni fine a se stessi. Voglio dire: se tolgo qualcosa è per condividerlo e non solo per saggiare la mia forza di volontà; se mi impegno in qualcosa è per semplificarmi e andare al centro della fede, non per assicurarmi un buon punteggio nella classifica finale del giudizio universale.

In una frase: la conversione è un cambiamento di investimento delle proprie energie.

Per cosa/chi investo le mie forze?

Per cosa/chi mi gioco nell’amore?

Per cosa/chi dono il mio tempo?

Per cosa/chi indirizzo le mie passioni?

Conversione è investire tutte le proprie forze sulla Parola di Gesù, senza tentennamenti, senza paura, senza ritorni. E’ orientare la vita lasciandosi portare dal soffio dello Spirito. E’ togliere ciò che appesantisce, sciogliere ciò che mi lega, ordinare ciò che mi confonde. Maria, madre nostra e madre della speranza, aggiunga ciò che manca alla nostra preghiera

 

PREGHIAMO:

Ti preghiamo, Signore Gesù,  la Tua Parola sia guida  nel nostro cammino di conversione. Con Te attraverseremo il deserto  e ci addestreremo all’essenzialità. Lasceremo che lo Spirito  sia lo scalpello che ci lavora, colpo dopo colpo  vedremo emergere in noi la Tua immagine, scopriremo la Tua bellezza  dietro alle nostre fragilità. Faremo esperienza che il Tuo amore  è più forte del nostro peccato e più ostinato delle nostre fughe.  Scopriremo che il Tuo perdono  scioglie quei nodi del cuore  che da soli non possiamo disfare. Ci accorgeremo che tutto questo è possibile. Con la Tua Parola nel cuore  sconfiggeremo il maligno. Maria, madre Tua e madre nostra,  aggiunga ciò che manca alla nostra preghiera.  Amen.

 

 

PROPOSTE PER IL TEMPO DELLA QUARESIMA:

 

Ø  5 marzo: inizio della quaresima con l’IMPOSIZIONE DELLE CENERI durante le celebrazioni dell’Eucaristia; giorno di digiuno e di astinenza dalle carni.

 

Ø  9 marzo: RITIRO SPIRITUALE in convento dalle 8,45 alle 12,30: celebrazione delle Lodi, meditazione, adorazione e celebrazione dell’Eucaristia

 

Ø  10/17/24/31 MARZO; 7/14 APRILE: OASI DELLA PAROLA dalle 20,45 alle 21,45: preghiera dei Vespri, adorazione e riflessione sul racconto evangelico della Passione secondo il Vangelo di Matteo

 

Ø  12/19/26 MARZO; 2/9 APRILE: VIA CRUCIS ALLE 20,45

(animata dall’Ordine Francescano Secolare)

 

 

Ø  7/14/21/28 MARZO; 4/11 APRILE: VIA CRUCIS alle 17,15


CIRCONCISIONE  E PRESENTAZIONE AL TEMPIO

 

Il vangelo dell’infanzia di Luca insiste sul tema del tempio: la prima scena (l’annuncio dell’angelo a Zaccaria) e le ultime due riguardano, appunto, il tempio. Per raccontare la circoncisione di Gesù, come nel caso di Giovanni il Battista, all’evangelista basta una brevissima annotazione. E’ più interessato all’imposizione del nome che alla circoncisione stessa. Si tratta di un nome dato da Dio, non dagli uomini. Non è, infatti, un nome per l’anagrafe, ma per significare la profonda identità e la missione del bambino, due cose che solo Dio conosce. E perciò solo Dio può scegliere il nome appropriato. Per il bambino di Maria e di Giuseppe il nome appropriato è Gesù, che significa “salvatore”.

 

Nel racconto della purificazione di Maria e della presentazione di Gesù (2,22-24), Luca sembra voler anzitutto sottolineare l’osservanza della legge: l’espressione ricorre tre volte: “secondo la legge di Mosé” (2,22), “come è scritto nella legge del Signore “(2,23), “per offrire un sacrificio secondo quanto è detto nella legge del Signore” (2,24). Non solo in questo episodio, ma anche nei successivi Luca presenta la famiglia di Nazareth come una famiglia osservante (2,27.39.42).

 

Le cerimonie compiute al tempio sono tre: anzitutto la cerimonia della purificazione di Maria, che è descritta nel libro del Levitico (cap. 12). Il testo evangelico parla della “loro” purificazione”, ma in realtà si tratta di una cerimonia che riguarda solo la madre. Poi l’offerta del figlio primogenito al Signore, come fa obbligo un passo dell’Esodo (13,2.12.15). Si tratta di un rito suggestivo e simbolico: il figlio appartiene a Dio, non ai genitori e se questo è vero per tutti, lo è più profondamente per Gesù. Egli non appartiene ai genitori ma al Padre, come dirà egli stesso alla madre che lo ritrova nel tempio. E in tutta la sua vita non farà che affermare la totalità e l’esclusività della sua appartenenza al Padre. Infine, il sacrificio per il riscatto simbolico del bambino, come è descritto in Levitico 12,6. Il sacrificio consisteva nell’offerta di un agnello per i ricchi; per i poveri di due tortore o due colombi. Gesù fu riscattato con l’offerta dei poveri, cioè di due giovani colombi.

 

IL VECCHIO SIMEONE - Nella tipologia dei testimoni, che Luca tratteggia nel suo vangelo, Simeone è una figura importante, anche se esce dall’ombra solo per un istante. La sua funzione è di riconoscere il Messia e di indicarlo pubblicamente. Nulla è più importante di questo. E perciò Luca desidera che il lettore vi ponga un’attenzione particolare: “Ed ecco”. Simeone è un nome giudaico molto frequente. Secondo Genesi 29,33 il suo significato è “Dio ascolta”. Forse si tratta semplicemente di una etimologia popolare, ma nel nostro episodio questo significato si avvera: Dio ha esaudito il desiderio del vecchio Simeone. Difatti Luca lo definisce “uomo giusto e timorato di Dio, che desiderava la consolazione di Israele” (2,25). Giusto e timorato di Dio è una frase abituale per definire il “santo” dell’Antico Testamento. La nota che più lo caratterizza però è l’ardente desiderio di vedere il Messia. Luca esprime questo desiderio con un participio, che dice una situazione costante, non il desiderio di un momento, e utilizza un verbo che accanto all’attesa e al desiderio dice anche l’accoglienza e l’ospitalità. E’ l’attesa di chi aspetta un ospite caro e gli prepara una casa accogliente. Oltre che giusto e timorato, Simeone è guidato dallo Spirito: “lo Spirito era sopra di lui”. Lo Spirito è nominato tre volte nell’episodio. Evidentemente è lui il vero protagonista. E infatti è proprio lo Spirito che ha suscitato in Simeone l’ardente attesa del Messia, mantenendola ferma sino alla fine. Dono dello Spirito è la speranza. Ed è sempre lo Spirito che offre a Simeone la chiaroveggenza necessaria per riconoscere il Messia in un bambino. Senza lo Spirito non si riconosce la presenza di Dio. Questo riconoscimento si fa esplicito nel cantico e nelle parole profetiche rivolte alla madre. Il cantico è una preghiera costruita attorno a tre citazioni del profeta Isaia, che parlano di speranza e di consolazione: “Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà” (40,5); “Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino alle estremità della terra” (49,6); “I popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria” (62,2). In tutte e tre le citazioni la visione messianica è universale: da Israele alle genti. Il vecchio Simeone fa sua la speranza del profeta e il suo universalismo, ma vi introduce una modifica sostanziale: i verbi non sono più al futuro (“vedranno”), ma al passato (“hanno visto”): la speranza è ormai compiuta, il Messia è qui, anche se non ancora completamente svelato.

 

Il bambino che Maria e Giuseppe portano al tempio è la luce di cui tutti i popoli hanno bisogno. Ma non basta questa affermazione a definire il mistero del bambino. Simeone intravede anche un altro aspetto, e lo esprime nelle parole rivolte a Maria. Simeone benedice ambedue i genitori, ma le parole sono soltanto per la madre. Il bambino sarà “segno di contraddizione”. E’ la luce del mondo, ma una luce contraddetta: cercato e rifiutato, amato e crocifisso, sconfitto e vittorioso. Una contraddizione che coinvolgerà anche la madre. Isaia (53,5) ha usato la stessa espressione per profetizzare il destino del servo di Dio; Simeone l’applica alla madre per mostrare, quasi in uno specchio, il destino del Figlio.

 

L’incontro fra Gesù e il vecchio Simeone avviene all’ingresso del tempio, prima dell’azione liturgica: il vecchio e il bambino, l’Antico e il Nuovo Testamento, l’attesa e il compimento sono uno di fronte all’altro. Simeone è la figura del giusto dell’Antico Testamento che si apre all’accoglienza del Nuovo. Il vecchio Simeone, che ha speso la sua vita nell’attesa, ora può morire tranquillo: “Lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace”.

 

ANNA LA PROFETESSA - Anche Anna esce improvvisamente dall’ombra, e il narratore la descrive con precisione, quasi volesse porla in piena luce. E’ una donna molto anziana, vedova, e vive nel tempio da molti anni, “digiunando e pregando e servendo il Signore notte e giorno”. Anna rappresenta la figura caratteristica dell’israelita devoto, come Simeone. E come lui è la figura di Israele che si apre al Messia. Tuttavia non ha ancora compreso Gesù completamente: parla infatti di redenzione di Gerusalemme, non del mondo.

 

Anna compare sulla scena del tempio come una figura silenziosa. Di lei non si riporta alcuna parola, né rivolta ai giudei né a Dio né al bambino. E tuttavia loda il Signore e parla del bambino pubblicamente.

 

Anna è chiamata profetessa. Per la Bibbia il profeta non è chi predice il futuro, ma chi riconosce la presenza di Dio. L’anziana donna è profetessa perché ha riconosciuto nel bambino la “redenzione di Gerusalemme”. Si noti il termine redenzione, riscatto, Simeone aspettava la “consolazione” di Israele, Anna il riscatto. Sono due immagini che insieme dicono la salvezza: la consolazione suppone una condizione di tristezza, il riscatto una condizione di schiavitù. La salvezza è una liberazione gioiosa.

 

***

 

Papa Benedetto XVI ebbe a dire ai Consacrati: La vita consacrata costituisce una risposta totale e definitiva a Dio, incondizionata e appassionata, perché quando si rinuncia a tutto, si valorizza ciò che si ha di più caro affrontando qualsiasi sacrificio e allora anche la persona consacrata diventa necessariamente segno di contraddizione, in quanto il suo modo di pensare e vivere è spesso in contraddizione con la logica che si presenta nei mezzi di comunicazione. Così si sceglie Cristo, anzi ci si lascia conquistare da lui senza riserve. È questo abbandono, la preziosa testimonianza che i consacrati e le consacrate rendono di fronte agli uomini di tutto il mondo, che sono ammirati di chi è disposto a dare anche la vita.

 

 

Preghiamo per le persone consacrate perché testimonino la sapienza della povertà e siano segno di contraddizione in una società che vive dell’efficienza e del successo.


L'INCONTRO CON GESÙ

III domenica del Tempo ordinario – A

Is 8,23 - 9,2; 1 Cor 1,10-13. 17; Mt 4, 12-23

 

 

Introduzione: Nel testo di Mt 4,12-25 (il brano di questa domenica si ferma al v. 23) abbiamo il vero e proprio inizio del racconto del Vangelo di Matteo con l’inaugurazione del ministero di Gesù dopo il battesimo e l’episodio delle tentazioni. Per noi che iniziamo il percorso del Tempo ordinario dell’anno A che ci accompagnerà attraverso le pagine di Matteo di domenica in domenica questo inizio ha un significato del tutto speciale: costituisce il nostro primo incontro con quel Gesù di cui ci riconosciamo discepoli e con il suo annuncio. In questo testo potremmo riconoscere la dinamica del nostro incontro con Gesù: del nostro primo incontro, ma anche di ogni nuovo incontro che segna la nostra esistenza e le nostre giornate. E’, in fondo, ciò che ci vuol far fare Matteo: condurci a riconoscerci in Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni.

Il brano del profeta Isaia (1a lettura) è stato scelto perché ripreso da Matteo nella “citazione di compimento” dei vv. 15-16. Non dobbiamo leggere la lettura del Primo Testamento solo come una profezia che si realizza con la venuta di Gesù, quasi che ormai avesse perso il suo valore, essendo giunta la realizzazione. Matteo, da buon lettore ebreo delle Scritture, le rilegge e legge la storia alla loro luce. Il loro valore rimane quindi sempre attuale. Anche noi oggi dobbiamo continuare quella stessa rilettura come discepoli di Gesù, per leggere la nostra storia di oggi.

 

Il brano della Prima Lettera ai Corinzi (2a lettura), che leggeremo nelle prossime domeniche in lettura semi-continua, solleva un problema centrale per la vita delle comunità cristiane, quello dell’unità. Tutti siamo discepoli unicamente di Cristo e chiunque svolga un ministero nella Chiesa deve sapere di dover condurre unicamente a lui. Gesù rimane l’unico maestro. Dovrebbe essere un punto sul quel fare un costante esame di coscienza. Se nel brano evangelico possiamo leggere la storia del nostro incontro con Gesù, l’apostolo Paolo ci insegna a rimanere suoi discepoli e a vivere alla luce di quell’incontro fondante, che ora cerchiamo di comprendere meglio seguendo il racconto di Matteo.

 

L’annuncio di Gesù: La prima cosa che ci viene presentata è l’annuncio di Gesù, l’inizio del suo insegnamento dopo la cattura di Giovanni Battista. Gesù predica la conversione e annuncia la vicinanza del Regno: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». L’imperativo con il quale Gesù invita alla conversione è posto all’inizio in posizione molto forte ed enfatica: Convertitevi! La prima dimensione necessaria dell’incontro con lui è la conversione. Non è una novità quella che Gesù annuncia. Infatti l’invito alla conversione è il messaggio di tutti i profeti che richiamavano il popolo ad abbandonare gli idoli e a seguire il Signore. Anche l’annuncio di Giovanni Battista è il medesimo (cf. Mt 3,2). Ebbene la prima dimensione che ci si pone davanti nell’incontro con Gesù è proprio quella della conversione. Non si può essere suoi discepoli se non vivendo in profondità la conversione a Dio e il rifiuto di ogni forma di idolatria. Aderire a Gesù, ascoltare la sua chiamata ha come condizione la conversione a Dio. Tale conversione può essere paragonata ad un grande “terremoto” che sconvolge un certo modo di pensare ed agire. Ma il primo ambito della vita che tale “terremoto” viene a sconvolgere è quello della nostra relazione con Dio che ora passa attraverso l’umanità del Figlio.

 

Il secondo aspetto dell’annuncio di Gesù, anch’esso condiviso con quello dei profeti e di Giovanni Battista, è l’annuncio del Regno. Incontrando Gesù si è messi davanti all’urgenza di una scelta definitiva e radicale: essere in sintonia o no con il compimento che attende la storia dell’umanità e che è fin dall’origine il compimento del sogno di Dio su di essa.

 

Lo seguirono: Subito dopo la descrizione del messaggio di Gesù nelle sue linee fondamentali, Matteo ci presenta la chiamata dei primi discepoli: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni. Due coppie di fratelli che svolgevano il medesimo lavoro di pescatori presso il lago di Galilea. In essi noi potremmo vedere come il modello dell’incontro tra annuncio di Gesù e l’esistenza concreta di un uomo o una donna. Essi diventano come il modello di ogni discepolo e ciascuno di noi può scoprire in Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni qualcosa della propria storia di sequela del Signore, qualche tratto del suo incontro con lui, e interrogarsi sulla verità e sulla radicalità della sua scelta.

L’incontro con Gesù avviene nei luoghi della vita di ogni giorno: il luogo del lavoro, dello scambio, dei rapporti. Siamo lungo il mare di Galilea, dove si svolgeva gran parte della vita sociale ed economica dei villaggi della regione. L’incontro avviene nel tempo dell’occupazione e del lavoro: Pietro e Andrea suo fratello sono impegnati nel loro lavoro, cioè mentre stavano gettando le reti in mare. Gesù passa in questo tempo e in questo luogo e chiama alla sequela.

A questo punto abbiamo la reazione immediata dei primi due discepoli. Essi abbandonate le reti, che stavano gettando in mare, seguono Gesù. In questo primo incontro si usa per la prima volte in Matteo un verbo molto importante che ha un chiaro significato teologico (ecclesiologico): il verbo “seguire” (akoloutheo). Nel Vangelo di Matteo questo verbo comparirà per 25 volte e verrà usato in modo particolare per parlare della sequela di Gesù. Ciò che si sottolinea molto in questa “sequela” che inizia per Pietro e Andrea è la prontezza della risposta: è il riflesso della vicinanza del Regno che Gesù annuncia. Di fronte ad un tale annuncio la risposta non può che essere immediata. Quella di Gesù è una proposta così radicale che non ammette tentennamenti o compromessi. Matteo di questo primo incontro sottolinea anche che tale sequela comporta un distacco e ai tempi di Gesù sul lago di Galilea non era un bene da poco l’attrezzatura per la pesca. E’ il volto concreto della “conversione” che Gesù annuncia e che prende carne nell’esistenza dei primi discepoli.

Ma poco oltre c’è un altro incontro, ancora con due fratelli: Giovanni e Giacomo, i figli di Zebedeo. Anche a loro Gesù si rivolge con il medesimo invito alla sequela. La risposta è la medesima di Andrea a Pietro: immediata. In questo secondo incontro si sottolinea un altro aspetto della conversione: il distacco dagli affetti. Ai tempi della comunità di Matteo non era cosa rara che per seguire Gesù si dovesse lasciare, anche in modo traumatico, i propri affetti familiari. Così Matteo sottolinea che Giovanni e Giacomo lasciano il padre Zebedeo, quando Gesù li chiama.

 

 

Un storia che continua: Questi due incontri divengono come l’icona dell’incontro con Gesù di ogni discepolo e mostrano le conseguenze nella vita personale degli uomini e delle donne dell’annuncio fondamentale di Gesù: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». C’è una “conversione” necessaria di fronte ad ogni incontro con Gesù e c’è una urgenza che occorre saper cogliere e che è dovuta al fatto che in lui il Regno di Dio si è fatto vicinissimo. E’ una storia che continua quella che Matteo ci narra. Una storia iniziata là, sulle rive del Mare di Galilea, e che chiede di continuare nella nostra vita.


15 agosto 2013

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

 

LA VALORIZZAZIONE DEL CORPO

NELLA VITA CRISTIANA E NEL CULTO

 

 

Il brano evangelico della visitazione e dell’inno del Magnificat - proposto nella solennità dell’Assunta - consente qualche annotazione che evidenzia alcuni aspetti per cui la figura di Maria è davvero un segno di consolazione e di sicura speranza per il credente.

 

Dalla parola evangelica siamo invitati a guardare Maria con gli occhi ammirati di Elisabetta, la quale formula una domanda piena di sorpresa per la visita assolutamente gratuita da parte della Madre del suo Signore, domanda incastonata tra due esclamazioni che lodano Maria come "benedetta tra le donne" e "beata perché ha creduto".

 

 La domanda, colma di gratitudine da parte di Elisabetta, deve restare viva anche nelle nostre comunità. Esse non possono dare per scontata un’esperienza di fede e di genuina devozione verso la Madre del Signore.

Nessuna comunità e nessuna persona è degna del grande dono che Gesù ci ha fatto di sua Madre poco prima che morisse sulla croce; eppure siamo stati consegnati a lei quali discepoli di suo figlio. La festa odierna è un’occasione per approfondire un’autentica devozione mariana e la consapevolezza che un cammino di fede non è affidato al singolo come persona isolata, ma si rende possibile in una comunità.

 

Questa è in un certo senso "culla" e nutrimento per una maturazione del nostro discepolato; Maria esprime mirabilmente questa maternità della comunità verso il cammino del credente nell’ascolto della Parola. Venendo all’acclamazione di Maria come la benedetta, è opportuno ricordare come l’espressione non indichi un banale confronto competitivo di Maria con le altre donne, ma sia il modo biblico per esaltare l’eroe che ha ricevuto da Dio il dono della vittoria.

 

Ebbene, Maria è la benedetta in quanto in lei si è manifestata la vittoria di Dio che, nella sua vita storica, è coincisa con una fede piena nella promessa del Signore e con un’obbedienza senza riserve. Tale vittoria non si esaurisce nei limiti del tempo, ma - come ci ricorda la festa odierna - trova anzi il suo compimento nell’essere Maria preservata dalla corruzione del sepolcro e rivestita della gloria di Dio nell’integralità della sua persona.

 

E’ importante sottolineare, nella predicazione e nella catechesi, l’integralità di questa salvezza, cioè il coinvolgimento della corporeità di Maria, proprio oggi, poiché il nostro atteggiamento verso il corpo è schizofrenico: da una parte lo si idolatra, dall’altra si è incapaci di conoscere il suo destino di gloria.

 

Connessa a tale valorizzazione della corporeità è anche una nuova considerazione del ruolo del corpo nella vita cristiana e nel culto da dare a Dio (cf Rm 12,1-2). L’altra esclamazione di Elisabetta proclama esplicitamente la fede di Maria come fonte della sua beatitudine. Oggetto di questa fede di Maria è il compimento della parola del Signore, cioè la fedeltà di Dio alle sue promesse. L’esempio di Maria è certamente una seria provocazione per le nostre comunità, nelle quali troppo spesso lo splendore della promessa divina è quasi taciuto e dimenticato. Emergono allora i problemi, le carenze, le tiepidezze, e una concezione della vita cristiana come un insieme di obblighi e rinunce. Bisogna invece riscoprire la gioia della fedeltà di Dio, che non lascia cadere nel vuoto la sua Parola su di noi.

 

La celebrazione di Maria assunta in cielo è un’occasione per approfondire nel nostro cuore questa gioia derivante dall’esperienza della forza e della fedeltà della parola di Dio. La beatitudine di Maria può diventare una realtà sperimentabile anche da noi, quando cresce in noi la certezza che Dio dà compimento al suo misterioso e amoroso piano di salvezza sull’umanità, nonostante le apparenti smentite della storia.

Il vangelo dell’infanzia di Luca insiste sul tema del tempio: la prima scena (l’annuncio dell’angelo a Zaccaria) e le ultime due riguardano, appunto, il tempio. Per raccontare la circoncisione di Gesù, come nel caso di Giovanni il Battista, all’evangelista basta una brevissima annotazione. E’ più interessato all’imposizione del nome che alla circoncisione stessa. Si tratta di un nome dato da Dio, non dagli uomini. Non è, infatti, un nome per l’anagrafe, ma per significare la profonda identità e la missione del bambino, due cose che solo Dio conosce. E perciò solo Dio può scegliere il nome appropriato. Per il bambino di Maria e di Giuseppe il nome appropriato è Gesù, che significa “salvatore”.

 

Nel racconto della purificazione di Maria e della presentazione di Gesù (2,22-24), Luca sembra voler anzitutto sottolineare l’osservanza della legge: l’espressione ricorre tre volte: “secondo la legge di Mosé” (2,22), “come è scritto nella legge del Signore “(2,23), “per offrire un sacrificio secondo quanto è detto nella legge del Signore” (2,24). Non solo in questo episodio, ma anche nei successivi Luca presenta la famiglia di Nazareth come una famiglia osservante (2,27.39.42).

 

Le cerimonie compiute al tempio sono tre: anzitutto la cerimonia della purificazione di Maria, che è descritta nel libro del Levitico (cap. 12). Il testo evangelico parla della “loro” purificazione”, ma in realtà si tratta di una cerimonia che riguarda solo la madre. Poi l’offerta del figlio primogenito al Signore, come fa obbligo un passo dell’Esodo (13,2.12.15). Si tratta di un rito suggestivo e simbolico: il figlio appartiene a Dio, non ai genitori e se questo è vero per tutti, lo è più profondamente per Gesù. Egli non appartiene ai genitori ma al Padre, come dirà egli stesso alla madre che lo ritrova nel tempio. E in tutta la sua vita non farà che affermare la totalità e l’esclusività della sua appartenenza al Padre. Infine, il sacrificio per il riscatto simbolico del bambino, come è descritto in Levitico 12,6. Il sacrificio consisteva nell’offerta di un agnello per i ricchi; per i poveri di due tortore o due colombi. Gesù fu riscattato con l’offerta dei poveri, cioè di due giovani colombi.

 

IL VECCHIO SIMEONE - Nella tipologia dei testimoni, che Luca tratteggia nel suo vangelo, Simeone è una figura importante, anche se esce dall’ombra solo per un istante. La sua funzione è di riconoscere il Messia e di indicarlo pubblicamente. Nulla è più importante di questo. E perciò Luca desidera che il lettore vi ponga un’attenzione particolare: “Ed ecco”. Simeone è un nome giudaico molto frequente. Secondo Genesi 29,33 il suo significato è “Dio ascolta”. Forse si tratta semplicemente di una etimologia popolare, ma nel nostro episodio questo significato si avvera: Dio ha esaudito il desiderio del vecchio Simeone. Difatti Luca lo definisce “uomo giusto e timorato di Dio, che desiderava la consolazione di Israele” (2,25). Giusto e timorato di Dio è una frase abituale per definire il “santo” dell’Antico Testamento. La nota che più lo caratterizza però è l’ardente desiderio di vedere il Messia. Luca esprime questo desiderio con un participio, che dice una situazione costante, non il desiderio di un momento, e utilizza un verbo che accanto all’attesa e al desiderio dice anche l’accoglienza e l’ospitalità. E’ l’attesa di chi aspetta un ospite caro e gli prepara una casa accogliente. Oltre che giusto e timorato, Simeone è guidato dallo Spirito: “lo Spirito era sopra di lui”. Lo Spirito è nominato tre volte nell’episodio. Evidentemente è lui il vero protagonista. E infatti è proprio lo Spirito che ha suscitato in Simeone l’ardente attesa del Messia, mantenendola ferma sino alla fine. Dono dello Spirito è la speranza. Ed è sempre lo Spirito che offre a Simeone la chiaroveggenza necessaria per riconoscere il Messia in un bambino. Senza lo Spirito non si riconosce la presenza di Dio. Questo riconoscimento si fa esplicito nel cantico e nelle parole profetiche rivolte alla madre. Il cantico è una preghiera costruita attorno a tre citazioni del profeta Isaia, che parlano di speranza e di consolazione: “Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà” (40,5); “Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino alle estremità della terra” (49,6); “I popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria” (62,2). In tutte e tre le citazioni la visione messianica è universale: da Israele alle genti. Il vecchio Simeone fa sua la speranza del profeta e il suo universalismo, ma vi introduce una modifica sostanziale: i verbi non sono più al futuro (“vedranno”), ma al passato (“hanno visto”): la speranza è ormai compiuta, il Messia è qui, anche se non ancora completamente svelato.

 

Il bambino che Maria e Giuseppe portano al tempio è la luce di cui tutti i popoli hanno bisogno. Ma non basta questa affermazione a definire il mistero del bambino. Simeone intravede anche un altro aspetto, e lo esprime nelle parole rivolte a Maria. Simeone benedice ambedue i genitori, ma le parole sono soltanto per la madre. Il bambino sarà “segno di contraddizione”. E’ la luce del mondo, ma una luce contraddetta: cercato e rifiutato, amato e crocifisso, sconfitto e vittorioso. Una contraddizione che coinvolgerà anche la madre. Isaia (53,5) ha usato la stessa espressione per profetizzare il destino del servo di Dio; Simeone l’applica alla madre per mostrare, quasi in uno specchio, il destino del Figlio.

 

L’incontro fra Gesù e il vecchio Simeone avviene all’ingresso del tempio, prima dell’azione liturgica: il vecchio e il bambino, l’Antico e il Nuovo Testamento, l’attesa e il compimento sono uno di fronte all’altro. Simeone è la figura del giusto dell’Antico Testamento che si apre all’accoglienza del Nuovo. Il vecchio Simeone, che ha speso la sua vita nell’attesa, ora può morire tranquillo: “Lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace”.

 

ANNA LA PROFETESSA - Anche Anna esce improvvisamente dall’ombra, e il narratore la descrive con precisione, quasi volesse porla in piena luce. E’ una donna molto anziana, vedova, e vive nel tempio da molti anni, “digiunando e pregando e servendo il Signore notte e giorno”. Anna rappresenta la figura caratteristica dell’israelita devoto, come Simeone. E come lui è la figura di Israele che si apre al Messia. Tuttavia non ha ancora compreso Gesù completamente: parla infatti di redenzione di Gerusalemme, non del mondo.

 

Anna compare sulla scena del tempio come una figura silenziosa. Di lei non si riporta alcuna parola, né rivolta ai giudei né a Dio né al bambino. E tuttavia loda il Signore e parla del bambino pubblicamente.

 

Anna è chiamata profetessa. Per la Bibbia il profeta non è chi predice il futuro, ma chi riconosce la presenza di Dio. L’anziana donna è profetessa perché ha riconosciuto nel bambino la “redenzione di Gerusalemme”. Si noti il termine redenzione, riscatto, Simeone aspettava la “consolazione” di Israele, Anna il riscatto. Sono due immagini che insieme dicono la salvezza: la consolazione suppone una condizione di tristezza, il riscatto una condizione di schiavitù. La salvezza è una liberazione gioiosa.

 

***

 

Papa Benedetto XVI ebbe a dire ai Consacrati: La vita consacrata costituisce una risposta totale e definitiva a Dio, incondizionata e appassionata, perché quando si rinuncia a tutto, si valorizza ciò che si ha di più caro affrontando qualsiasi sacrificio e allora anche la persona consacrata diventa necessariamente segno di contraddizione, in quanto il suo modo di pensare e vivere è spesso in contraddizione con la logica che si presenta nei mezzi di comunicazione. Così si sceglie Cristo, anzi ci si lascia conquistare da lui senza riserve. È questo abbandono, la preziosa testimonianza che i consacrati e le consacrate rendono di fronte agli uomini di tutto il mondo, che sono ammirati di chi è disposto a dare anche la vita.

 

 

Preghiamo per le persone consacrate perché testimonino la sapienza della povertà e siano segno di contraddizione in una società che vive dell’efficienza e del successo.


Testi della Trasfigurazione:

Mc; Lc; Mt.

 

Marco 9, 2-10

 

 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse soli, sopra un alto monte in solitudine. E si trasfigurò davanti a loro: 3le sue vesti divennero sfolgoranti, bianchissime, tali che nessun lavandaio sulla terra saprebbe farle così candide. 4E apparve loro Elia con Mosè, e stavano conversando con Gesù. 5Pietro allora prese a dire a Gesù: Rabbi, si sta bene qui; facciamo dunque tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia. 6Non sapeva però cosa dicesse, tanto eran presi dallo spavento. 7E venne una nuvola che li avvolse, e dalla nuvola uscì una voce: Questi è il Figlio mio, il Diletto, ascoltatelo. 8E subito, guardandosi intorno, non videro più nessuno salvo Gesù solo con loro.

9Mentre scendevano dal monte Gesù ordinò loro di non raccontare a nessuno quello che avevano veduto, prima che il Figlio dell’uomo non fosse risorto dai morti. 10Ed essi tennero la cosa per sé, domandandosi tra loro che mai significasse quel risorgere dai morti.

 

Luca 9, 28-36      

 

28E avvenne che, circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29E avvenne, mentre stava pregando, che il suo volto cambiò aspetto e la sua veste divenne candida e splendente. 30Ed ecco, due uomini conversavano con lui. Erano Mosè ed Elia che, 31apparsi nella loro gloria, parlavano del suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme.

32Pietro e i suoi compagni erano presi dal sonno, ma restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33E avvenne, mentre questi si separavano da lui, che Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia. Ma egli non sapeva quello che diceva.

34Mentre diceva queste cose, avvenne che una nube li avvolse. Nell’entrare nella nube, ebbero paura. 35E avvenne che dalla nube uscì una voce: Questi è il mio Figlio, ascoltatelo.

36E mentre la voce risuonava, Gesù restò solo

Essi conservarono il silenzio e in quei giorni non dissero ad alcuno le cose che avevano visto.

 

Mattteo 17, 1-9

 

1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E si trasfigurò davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3E apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Pietro allora prese la parola e disse a Gesù: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per

Elia”. 5E gli stava ancora parlando, quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. 6Nell’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: “Alzatevi e non temete”. 8Sollevando gli occhi, non videro più nessuno, se non Gesù solo. 9E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò: “Non parlate a nessuno di questa visione, finchè il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”.

 

E si trasfigurò

 

 

Gesù ha annunciato l’avvicinamento del regno di Dio e ha chiesto conversione e fede (1, 15). Ora si sa che nel suo Figlio Dio è venuto al suo popolo e che conversione e fede devono essere vissute ascoltando questo Figlio con un cuore aperto e ubbidiente.

 

 

Una domanda importante posta a ciascuno di noi da Gesù a metà del Vangelo di Marco è : Chi sono io per te? Non so se abbiamo un po’ cercato di dare una risposta personale a questo interrogativo.

Poiché abbiamo oggi l’opportunità di passare una giornata insieme e possiamo quindi disporre di tempi più lunghi del solito, cercheremo di affrontare questo brano in due momenti, separati da una pausa di preghiera:

-         nella prima parte ci prepareremo al testo con una “composizione di luogo”, aiutati in questo da una bellissima icona russa che potremo contemplare tranquillamente durante la preghiera personale;

-         nella seconda parte, come di consueto, vedremo il testo più da vicino, cercando di coglierne il messaggio.

 

Ci saranno di particolare aiuto nel nostro lavoro alcuni testi scritti sull’argomento dal Card. Martini e da Bruno Maggioni dei quali farò una sintesi (cfr. C.M. MARTINI – La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor – ed. Rizzoli; Avvolti nel mistero della Trasfigurazione – ed. Lipa;  B. MAGGIONI: Il racconto di Marco; Il racconto di Luca; Il racconto di Matteo – ed. Cittadella).

 

 

Incominciamo anzitutto a leggere il brano nelle tre versioni che i vangeli sinottici ci propongono, guardando attentamente, possibilmente segnando poi con una matita, le variazioni esistenti tra un testo e l’altro. Ci aiuteranno ad avere una visione completa di quanto accaduto e ci permetteranno anche di vedere le sottolineature che ciascuno dei tre evangelisti ha voluto suggerire nel suo racconto specifico.


Si tratta di un brano che gli evangelisti hanno posto al centro del loro racconto.

Immediatamente prima di questo brano troviamo: la confessione di Pietro, il primo annuncio della passione e le condizioni per seguire Gesù.

Si tratta di un testo da considerare come un tutt’uno con il racconto del riconoscimento, da parte di Pietro, di Gesù come il Cristo.

Possiamo infine notare che da questo momento in poi gli eventi precipitano verso la passione.

 

Una prima domanda da porci è questa: ci sono altri testi che richiamano l’evento del Tabor?

Il Card. Martini ci invita a leggere, in parallelo a quello della Trasfigurazione, questi altri testi:

 

1)    Mc 1, 9-11: Il battesimo di Gesù (v. anche Mt 3, 13-17 e Lc 3, 21-22): anche questa scena descrive una “condizione di gloria” di Gesù che non è di ordinaria amministrazione: è eccezionale infatti l’evento dei cieli che si aprono, della colomba che discende, così come eccezionale è la voce del Padre che poi ritroviamo in questo brano;

2)    Mc 12, 32-42: La “defigurazione” di Gesù (v. anche: Mt 26, 36-46; e Lc 22, 39-46): è la scena commovente del Getzemani alla quale assistono gli stressi tre Apostoli della Trasfigurazione: Pietro, Giacomo e Giovanni; qui il volto luminoso di Gesù trasfigurato, si fa oscuro.

3)    Mc 16, 5: Gli angeli della Resurrezione (v. anche Mt 28, 3 e Lc 24, 4): la loro veste bianca richiama quella di Gesù trasfigurato, quasi a dire che la stessa resurrezione è in un certo qual modo anticipata dalla Trasfigurazione.

4)    2 Pt 1, 17-18: è Pietro che racconta come sul “santo monte” Gesù ricevette onore e gloria da Dio Padre.

 

 

Una sottolineatura tutta di Luca ci dice che l’evento della Trasfigurazione è avvenuto durante la preghiera di Gesù – e, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto… - sollecitandoci a riflettere sull’importanza della preghiera che, come già più volte abbiamo potuto constatare, era il respiro della vita di Gesù. Basterebbe ricordare i momenti più importanti nei quali la preghiera ha esplicitamente caratterizzato la vita di Gesù:

-             prima di chiamare gli apostoli (Lc 6, 12-16)

-             nella notte dopo la moltiplicazione dei pani (Mt 14, 23)

senza parlare di tutti gli insegnamenti e raccomandazioni sulla preghiera (Mt 6, 5-13; 7, 7-11; Lc 11, 1-13; 18, 1-5, per citarne alcuni).

 

Una esperienza che siamo invitate a fare – forse è la prima volta per noi – è questa:

osservare attentamente l’icona della Trasfigurazione che ci verrà mostrata e cercare di comprenderne il significato. Questo ci aiuterà a fare una “composizione di luogo” per poter poi riflettere più agevolmente sul contenuto del nostro brano.

Anche questo commento ce lo propone il Card. Martini.

 

-         In alto si vedono tre figure: Gesù, completamente bianco come la luce, sfolgorante come il sole; alla sua destra e alla sua sinistra Mosè ed Elia. Si trovano su tre picchi rocciosi, dove è difficile rimanere, quasi a dire che lo “stare sulla montagna” non è un adagiarsi sull’erba, bensì un resistere su picchi di roccia dura e arida; il che comporta una fatica, un rischio e richiede coraggio ed equilibrio.

-         Osserviamo ora i tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. E’ ancora poco dire che tutti e tre appaiono spauriti e intimiditi di fronte alla luce abbacinante di Gesù; essi sono addirittura sconvolti. Uno – probabilmente l’apostolo Giacomo è precipitato all’indietro, rovesciato, con la testa all’ingiù, e si copre la faccia con le mani. Sembra dirci: non capisco niente, è troppo per me, non mi raccapezzo, non riesco a guardare la gloria di Gesù. In mezzo, forse, sta Pietro che è invece piuttosto pensoso e si copre la bocca con la mano. Non guarda Gesù, ma riflette tra sé e sé: non so che cosa stia accadendo; il Signore mi sopravaluta, mi chiama al di là di ciò che posso comprendere. E’ quindi pieno di timore, pieno di paura. Il terzo, Giovanni, ha più coraggio nel guardare Gesù, pur essendo ancora timoroso. E’ come inginocchiato, riverente, ma con la mano sembra esprimere al Signore il desiderio di entrare nella sua luce.

 

Il Card. Martini fa un commento sull’atteggiamento di questi tre apostoli che, francamente, trovo molto pertinente alla nostra situazione e lo condivido con voi. Cercherò di sintetizzarlo, pur senza rinunciare ai punti essenziali.

E’ un atteggiamento, quello di Pietro, Giacomo e Giovanni, che descrive la resistenza interiore di questi discepoli ad osservare e ancor più a capire quanto sta succedendo a Gesù ed a loro stessi. Si tratta di tentazioni che scaturiscono dalla “carnalità” e dalla “mondanità” di cui questi discepoli (e noi no?) sono vittime e nelle quali noi ci rispecchiamo quando cerchiamo di entrare nella preghiera e ci accorgiamo che abbiamo proprio bisogno della Grazia di Dio per essere purificati e illuminati.

Diventa allora necessario chiedere al Signore di farci conoscere più a fondo l’identità di queste “tentazioni” che rendono prigioniero il nostro cuore impedendogli anche soltanto di iniziare la salita sul Tabor.

L’analisi sarebbe certamente ampia, ma noi ci limitiamo a quanto Marco fa dire a Gesù al capitolo 7, 20-21. Gesù è contestato dagli scribi e dai farisei perché i suoi discepoli non osservano alcune norme di “purificazione” quando assumono cibo: per esempio, lo prendono con mani immonde, non fanno le abluzioni prescritte, non si comportano cioè secondo le tradizioni degli antichi. Gesù li smaschera osservando quanto il loro culto sia semplicemente “formale” e non provenga dal cuore. Alla fine, Gesù dice loro:

Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo.

E poi prosegue.

Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, nascono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi; adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.

Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo.

 

A questo punto potremmo chiederci che cosa c’entra questo discorso con la Trasfigurazione. E qui arriva la spiegazione, se abbiamo la pazienza di ascoltarla.

 

In questo elenco – dice sempre Martini – c’è una sorta di ordine:

-         anzitutto i peccati più visibili, esteriori, che riguardano, se vogliamo, la convivenza umana: fornicazioni, adultèri (rovinano la vita di famiglia), furti, omicidi (rovinano la vita sociale, cioè il rapporto di fiducia tra le persone). Si tratta cioè di quattro peccati che corrodono, rompono il tessuto sociale della vita di famiglia, della vita economica e di relazione.

-         Seguono quattro tentazioni che vanno più in profondità nel cuore e che in qualche modo possiamo considerare molto pericolose, perché costituiscono la radice degli altri vizi: cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia. Si tratta cioè, per le prime tre, di quel desiderio malvagio, di quel gusto di ingannare gli altri, di quella falsità interiore che poi si traduce in peccati esterni; sono di per sé sentimenti che non appaiono esteriormente, ma che costituiscono la causa di atteggiamenti esterni che poi rovinano le relazioni. L’impudicizia – la quarta tentazione - si riferisce probabilmente alla sensualità non ben regolata, anche se talvolta non si manifesta subito in fornicazione e adulterio, ma intanto agita il cuore; così come avviene per la cupidigia, la malvagità e l’inganno rompono già dal di dentro quella capacità di relazione fiduciosa, fedele, benevola, onesta, altruista che costituisce il rapporto umano. Cupidigia è un termine che la Bibbia usa sovente, persino nel Decalogo (“non concupire”) ed è il desiderio disordinato che abbraccia la totalità dei desideri irragionevoli; il desiderio di possedere anche contro il bene degli altri, purchè faccia comodo a sé.

-         Ma la serie più importante dei vizi indicati da Marco è la terza e comprende: invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Sono, questi, dei vizi che toccano persino le comunità religiose, le parrocchie, i gruppi e si riscontrano, a differenza degli altri, più frequentemente nella vita associata buona e sono rovinosi. L’invidia: è il disgusto per il bene altrui; è una specie di veleno che quando entra in una comunità o in un gruppo, li rovina. Un sentimento che in noi scatta quando l’altro è più lodato e più ammirato. Fa parte della nostra debolezza, ma il rischio è che può portare a maldicenze, a calunnie, a denunciare l’altro, a parlarne male. La calunnia: conseguenza diretta dell’invidia, inquina la comunione in quanto è capace di creare sospetto e paura. La superbia: una forma esasperata di autoreferenzialità (essere al centro di tutto e di tutti). Il superbo, ritenendosi superiore agli altri, pretende che tutti lo riconoscano, non vuole essere giudicato da nessuno, giudica tutti e si mette al posto di Dio. La conseguenza più immediata è la ricerca del potere a qualunque costo. La stoltezza: è bene espressa in alcuni episodi biblici: “stolti” sono chiamati i discepoli di Emmaus (Lc 24, 25) perché tardi di cuore a credere nelle promesse del Maestro. Stoltezza è dunque non fare i conti con Dio, agire come se Dio non ci fosse. Stolto è chiamata l’uomo ricco che, dopo un buon raccolto, dice alla sua anima: riposati, mangia, bevi e datti alla gioia (Lc 12, 16-20).

 

Martini conclude questo esame dando tre indicazioni:

-         nessuno di noi dica: queste cose non mi riguardano, perché nei meandri del nostro cuore albergano tutti i vizi e potremmo quindi, prima o poi, caderci;

-         nessuno dica: mi accontento di tenere a bada i peccati e le tentazioni. Non basta, perché se non voliamo alto, cadremo; se non ci sforziamo di salire sul monte con Gesù, saremo sempre un po’ schiavi dei nostri vizi;

-         per questo siamo chiamati a contemplare il volto splendente di Gesù sul monte e a lasciarci trasformare dal volto del Crocifisso Risorto, ma abbiamo bisogno di lasciarci purificare da queste “resistenze” interiori.

 

Questo per introdurci alla contemplazione di questo mistero che il Vangelo ci presenta narrandoci la Trasfigurazione di Gesù.

 

In questa seconda parte cerchiamo, come di consueto, di vedere più da vicino il nostro testo.

 

Sei giorni dopo…

Dopo che cosa?

Se ci ricordiamo quanto abbiamo detto la volta scorsa, l’evento a cui Marco si riferisce è la professione di Pietro a Cesarea di Filippo: Tu sei il Cristo. Professione alla quale è seguito subito il primo annuncio della passione, fatto ormai in modo aperto da Gesù, al punto che Pietro, non riuscendo ad accettare questa predizione di Gesù, si mette a rimproverarlo nell’intento di fargli capire che a un Figlio di Dio è impossibile che accadano cose di questo genere.

E Pietro si becca a sua volta l’appellativo di “satana” da parte di Gesù, perché non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini.

E poi Gesù detta le condizioni per chi lo vuole seguire.

Questo il contesto.

 

Il brano della Trasfigurazione diventa, così un commento, una contemplazione di quanto era accaduto sei giorni prima. Ancora una volta questo ci può sembrare un po’ strano. Non si tratta cioè di un discorso che, a nostro modo di vedere, abbia un filo logico. Prima Gesù parlava di passione e morte, evidenziando in questo modo una consapevolezza sempre più chiara di quello che sarà il suo destino; ora si manifesta in un modo glorioso. Possono stare insieme queste due situazioni? Possono fare parte di un unico discorso?

E’ importante capire questo collegamento, altrimenti il mistero di Gesù rischia di diventare un semplice fatto di cronaca.

 

Per cogliere il messaggio teologico di Marco, osserva Bruno Maggioni, dobbiamo osservare tre cose:

 

1)    da una predizione all’altra della Passione (sono tre le predizioni fatte da Gesù), si nota un crescendo nei dettagli riguardanti fatti e personaggi. In questo modo Marco sembra volerci avvertire del fatto che ormai la Passione è diventata una costante nel pensiero di Gesù e che di fronte a questo evento che segna la fine della sua vita terrena, Gesù – come bene dice Luca – ha indurito il suo volto, dirigendosi decisamente verso Gerusalemme (Lc 9, 52). E pur nella consapevolezza sempre crescente di questo dramma che lo attende, Gesù sa che la morte violenta a cui andrà incontro è un fatto salvifico che rientra nel piano di Dio al quale egli aderisce totalmente e liberamente. Sarà Luca, più degli altri, a sottolineare che tutto ciò “era necessario”, perché è il piano di salvezza di Dio a prevederlo. La Passione è dunque ancorata a questo piano e non è una fatalità e proprio questo scandalizzerà i discepoli. Gesù vuole preparare i suoi a questo fatto scandaloso che, per essere accolto, va letto alla luce delle Scritture (Lc 24, 26-27. 46).

2)    Importante è però da notare che ogni annuncio della Passione è strettamente collegato a un annuncio di Resurrezione. Cioè il mistero di Gesù ha due facce e quella definitiva è la Resurrezione, non la Passione. Marco non soltanto vuole dirci che la Passione sarà seguita dalla Resurrezione, ma che la salvezza passa attraverso la Croce.

3)    E’ davvero sorprendente come, ad ogni annuncio, l’incomprensione dei discepoli segni in parallelo un andamento crescente: li troveremo infatti, mentre Gesù parla loro della sua Passione e morte imminente, intenti a discutere su chi è il più grande fra di loro. C’è dunque una solitudine totale di Gesù, non soltanto da parte delle folle, ma anche da parte di coloro gli sono vicini ormai da anni, i suoi discepoli.

 

L’incomprensione dei discepoli appare a prima vista assurda, se pensiamo alla bellissima testimonianza che Pietro ha reso sei giorni prima. Cosa significa questo? Significa che i discepoli vanno educati a comprendere ciò che hanno pronunciato con la bocca. La semplice confessione cristologica di Pietro, pure altissima, non è sufficiente, perché non gli è entrata nel cuore, non è diventata esperienza. Possiamo allora dire che la Trasfigurazione è un evento che porta i discepoli a sperimentare ciò che prima hanno pronunciato, per mezzo di Pietro, con la bocca.

Perché non è ancora esperienza? Perché il Figlio del Dio vivente è, per Pietro, il Figlio del Dio forte, potente, invincibile, insuperabile, e perciò non deve soffrire ed essere ucciso. Pietro non ha ancora compreso chi è questo Figlio e chi è questo Padre. Diventa necessario per lui, come per noi, compiere un passo ulteriore per la comprensione del Figlio.

E’ un problema che non riguarda soltanto i discepoli di allora, ma riguarda ciascuno di noi che ancora si pone, a distanza di duemila anni, degli interrogativi sulla necessità della Croce. La vera conoscenza di Dio è ancora in fondo per tutta la Chiesa una meta a cui tendere, perché, ancora oggi ci è difficile riconoscere che il Figlio Risorto è il Figlio Crocifisso.

 

Possiamo dividere il nostro testo in sei parti:

1)    le circostanze di tempo, di luogo e di persone

2)    la metamorfosi

3)    gli accompagnatori della metamorfosi

4)    la reazione dei discepoli

5)    la rivelazione della nube

6)    la conclusione

 

le circostanze:

-         di tempo: sei giorni dopo e richiamano quanto detto prima;

-         di luogo: in disparte su un alto monte: nella Scrittura ricordiamo il monte Sinai, quello della legge a anche della rivelazione del Dio misericordioso; forse si tratta anche del monte sul quale Elia riconosce Dio non nel terremoto, neppure nel fuoco e nel vento gagliardo, ma nella sottile voce del silenzio;

-         di persone: la presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni rimanda immediatamente al Getzemani; come qui si contempla il volto luminoso del Figlio, là si contemplerà il volto del Gesù debole, spaventato, afflitto fino alla morte.

 

La metamorfosi

fu trasfigurato davanti a loro”.

Il verbo, di per sé, significa “si trasformò” ed è tradotto con “si trasfigurò” a indicare la particolarità di tale trasformazione. Luca si esprime diversamente: “Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto”, cioè divenne altro.

C’è una trasformazione del volto – risplende come il sole – e c’è anche una trasformazione delle vesti: bianche come la luce o di un tale biancore che nessun lavandaio sulla terra saprebbe farle così candide.

L’allusione al sole e alla luce richiama per contrapposizione l’oscurità e le tenebre della morte di Gesù. E lo splendore e lo sfolgorio richiama pure l’angelo della resurrezione di Matteo. Si tratta dunque di una scena preludio alla resurrezione e, nello stesso tempo alla morte e al suo superamento. Pure l’Apocalisse parla di bianche vesti, le vesti del vincitore e le vesti di coloro che accompagnano l’Agnello (Ap. 3, 4-5 e 6, 11).

 

Gli accompagnatori della metamorfosi

Sono Mosè ed Elia. Il primo rappresenta la Torah, cioè la legge, il secondo rappresenta i profeti, cioè tutto l’accompagnamento che Dio ha fatto per il suo popolo con la parola dei profeti. Viene quindi concretamente richiamato quanto nelle Scritture riguarda Gesù. La mente degli apostoli si allarga dalla figura di Gesù alla totalità del Primo Testamento. Sia la legge che i profeti saranno evocati due volte nel brano di Emmaus (Lc 24, 27.44.45). Si vuole parlare cioè di Gesù come adempimento della legge (Mosè) e dei profeti (Elia), perché sono queste due realtà che portano alla rivelazione del Figlio. Di che cosa i tre personaggi parlassero, è soltanto Luca a farne cenno: parlavano dell’esodo che doveva avvenire a Gerusalemme.

 

La reazione dei discepoli

Se ne parla in due riprese:

-         al v. 4 del testo di Marco c’è una reazione estatica di Pietro: Signore, è bello per noi restare qui…; potremmo paragonare la Trasfigurazione a ciò che noi chiamiamo “i nostri momenti favorevoli”, momenti cioè sereni all’interno del nostro cammino di fede. Non sono momenti che si incontrano tanto facilmente, occorre saperli scorgere e soprattutto ricordarci che in ogni caso la loro comparsa è fugace e provvisoria. Il discepolo deve sapersi accontentare e accettare che queste esperienze siano brevi e poche. Pietro desiderava “eternizzare” quell’improvvisa e chiara visione, gioiosa e imprevedibile. Si tratta però di un desiderio che manifesta una incomprensione dell’avvenimento, che non può essere qualcosa di definitivamente acquisito ora, ma è un anticipo profetico di ciò che sarà la nostra meta. La strada del discepolo è ancora quella della Croce. Dio offre una verifica, una caparra: poi bisogna fargli credito senza limite. 

-         al v. 6 del testo di Matteo si parla di una reazione riverente e timorosa: All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra. Luca invece ci dà un resoconto un po’ diverso: parla di occhi appesantiti dal sonno, quasi a dire la fatica dei discepoli ad abituarsi al nuovo, a questo evento grandioso. Il sonno è un aspetto misterioso della preghiera di Pietro e dei suoi compagni e indica una caratteristica del nostro pregare. Non si tratta tanto del sonno fisico, ma di una preghiera caratterizzata da pesantezza, stanchezza, perché ci accontentiamo dell’esteriorità senza entrare col cuore nelle parole che esprimiamo e senza lasciarci coinvolgere. E’ spesso una preghiera che resiste a quella dedizione e a quell’abbandono propri della preghiera di Gesù. Nel sonno della preghiera dei discepoli viene fotografata – dice Martini – la fatica, la ripugnanza a impegnarsi nel cammino della preghiera con perseveranza. E’ sempre Luca a parlare del  “sonno” al cap. 21,  quando Gesù, nel discorso escatologico, invita a vigilare perché i cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita, mentre attendono la venuta del Figlio dell’uomo. Il sonno, è vero, è molto radicato in noi e la preghiera non è mai facile, perché è lotta profonda con Dio, è lotta contro satana. Perché lotta? Perché noi istintivamente non vogliamo fidarci di Lui, ci sentiamo più sicure quando riusciamo a gestire noi le situazioni; noi sappiamo che cosa è meglio fare e come comportarci… e non è raro il caso in cui suggeriamo a Dio cosa fare… E invece pregare è arrendersi a Dio, è credere che ciò che ci accadrà certamente ci porterà dei vantaggi, forse non immediati, forse in apparenza le cose sembreranno volgersi contro di noi…

Se non abbiamo mai sperimentato la ripugnanza della preghiera, la fatica del pregare, forse siamo ancora a un livello molto superficiale, istintivo… pregare quando si ha voglia, quando dentro ci sentiamo infervorate, è bello, certamente, ma può essere ricerca delle consolazioni di Dio e non del Dio delle consolazioni!

 

 

Pietro e i suoi compagni sono smarriti di fronte al mistero che li coinvolge. Non capiscono, non si sentono all’altezza, non sanno come reagire.

Forse anche a noi è capitato di ricevere doni che non sempre siamo state in grado di valutare nella loro essenza… sì è vero – si sente spesso dire – ieri mi è capitata una cosa positiva, bella… ma l’altro ieri, ma oggi…. Eternamente insoddisfatte perché sulla torta manca la ciliegina…

Oppure ci viene da pensare che i doni ricevuti siano … dovuti, siano nostri, dimenticando che, trattandosi di dono dall’Alto, possono venire meno… e allora la richiesta di prolungare uno stato di preghiera fervoroso, gioioso, tutto da gustare; ma la devozione nella preghiera è pura grazia e possiamo restarne privi.

Oppure accettiamo la compagnia della … paura. I discepoli ebbero paura, dice Luca. Cosa mi chiederà ora il Signore? Costui è il tipo che, se gli dai una mano, ti prende il braccio… e poi, e poi?? Fermiamoci pure soltanto al livello preghiera: come accettiamo l’aridità, come reagiamo alla consapevolezza più chiara del nostro peccato, del nostro limite, dove andiamo a nasconderci?

 

 

Possiamo dunque constatare che la situazione dei discepoli è anche la nostra situazione. E allora che fare?

Esprimere al Signore il nostro desiderio di imparare a pregare come Gesù, a trascorrere con Lui non i soliti fugaci cinque minuti con lo stato d’animo di chi ritiene di aver pagato la propria tassa… Imparare a desiderare di “stare”, di “rimanere” con Lui, contente di avere un certo lasso di tempo a disposizione, di aver organizzato bene la giornata così da porre nella nostra scala di valori, al primo posto, il tempo per “stare” con il Signore. E invece quante cose rischiano di avere la precedenza sulla preghiera…. E quante cose diventano improrogabili da fare quando arriva il tempo che dovrebbe invece essere tutto per Lui!

 

E non temere di raccontare a Gesù le nostre fatiche, la nostra non voglia di pregare, questo nostro “sonno” interiore che ci toglie lucidità, disponibilità, gioia, volontà, amore…

Potremmo anche semplicemente rivolgerci a Pietro, Giacomo e Giovanni e chiedere a loro di aiutarci a capire il perché del loro sonno, della loro confusione, che forse sono anche cose nostre; quella loro non voglia di capire, fosse anche soltanto incapacità… Ma noi sappiamo che, alla fine, con il dono dello Spirito, essi sono stati guariti e resi capaci di donare tutta la loro vita a quel Dio che per primo si è donato a noi.

 

E anche “stare”, “dimorare” con Gesù per fargli compagnia: a volte sarà sul Tabor, a volte sarà nel Getzemani, a volte sul monte, in solitudine, prima di una decisione importante. Chiedergli questo dono senza paura, senza sospetto, senza porre condizioni più o meno ragionevoli….

 

 

La rivelazione della nube

La nube – dice Martini – è qualcosa che vela, che nasconde, che mette in stato di raccoglimento permettendoci di dimenticare tutto il resto. Ma insieme, la nube è qualcosa di luminoso. L’entrare nella nube è sinonimo non soltanto della preghiera, bensì di quella preghiera che, attraverso l’aridità e la notte della fede, coglie lo splendore di Dio meglio che un facile entusiasmo.

La nube che avvolse i discepoli, fa pensare all’annuncio a Maria: la potenza dell’Altissimo ti adombrerà (Lc 1, 35).

Questa nube luminosa è il grembo dove si ascolta la voce: Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo.

Il figlio prediletto (agapethos) ricorda Abramo con il figlio amato Isacco; e conosciamo quella che è stata l’avventura di Abramo.

Nel quale mi sono compiaciuto: richiama il servo fedele di Isaia 42.

Ascoltatelo!: ripete l’espressione di Deuteronomio Lui ascolterete! (Dt 18, 15.19) e di Maria a Cana: Fate quello che vi dirà (Gv 2, 5). Per non accennare ai Salmi che spesso ripetono l’invito all’ascolto.

E’ la stessa voce che il Padre ha rivolto a Gesù nel Battesimo e che qui rivolge a noi, alla quale aggiunge l’imperativo dell’ascolto.

 

E’ l’ascolto che definisce il discepolo. La sua ambizione non è quella di essere originale, ma di essere servo della verità, in posizione di ascolto. E’ un imperativo, ricordiamocelo! E’ ciò che dobbiamo fare, è la nostra regola di vita. E’ la parte buona che ha scelto Maria, la sorella di Marta. Questa non le sarà mai tolta, dice Gesù. E’ un ascolto che diventa conversione, obbedienza, speranza, che richiede non soltanto intelligenza per comprendere, ma anche coraggio per decidere, perché è una Parola, quella che ascolti, che coinvolge la totalità della vita.

La conclusione

C’è un’annotazione che è sola di Matteo e che vale la pena considerare.

Dopo tutto questo, Gesù rimane solo, e i discepoli sono ancora lì tramortiti, presi da grande timore.

Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: Alzatevi e non temete!

C’è questo “tocco” di Gesù che li fa risorgere e fuga ogni paura.

I discepoli, come noi, hanno bisogno di questo “tocco” di Gesù. Abbiamo in altre circostanze parlato del “tocco” di Gesù, ad esempio, quello della donna emorroissa: chi mi ha toccato?… Ma se tutti ti schiacciano e premono da ogni parte… C’è un ”toccare” e un “lasciarsi toccare” che è diverso da quello che si può sperimentare tra la folla, sia essa fatta di persone o di eventi. In questo “tocco” c’è una grande consapevolezza, c’è una volontà, c’è una fede, c’è un coinvolgimento totale. E ci sono delle conseguenze evidenti, sperimentabili.

 

Dopo essere stati “toccati” i discepoli vedono Gesù solo.

Gesù solo è il senso di tutto, e Gesù solo deve essere visto accompagnato dalla voce, avvolto dalla nube, coadiuvato da Mosè e da Elia, nei significati che abbiamo appena appreso. (ripensiamo a che cosa rimanda la voce, a che significato ha la nube, a che cosa rappresentano Mosè ed Elia).

 

 

Quale Figlio dunque ci ha rivelato questo brano?

Ci ha rivelato il Figlio che stiamo cercando ancora ci comprendere attraverso il suo Vangelo, ma soprattutto di ascoltare. Un Figlio così amabile, attraente, avvicinabile e nello stesso tempo così fragile, vulnerabile, umiliato. Il Figlio che ha parlato di sofferenza e di morte, il cui volto vedremo spaventato nel Getzemani e imbiancato dalla morte sulla Croce. Il Figlio risorto e glorioso, pieno di luce e di splendore. Una unione di due volti, difficile da fare, e tuttavia, questo unico volto è il Figlio prediletto del Padre da ascoltare.

 

E per lo Spirito non c’è spazio in questo brano?

 

Credo lo si possa vedere nella nube luminosa che avvolge con la sua ombra.  Lo stesso Spirito che ha reso feconda la Vergine, lo Spirito che è grembo nel quale entriamo nell’Amore, cioè nella conoscenza del Padre e del Figlio. Discreto, delicato, rispettoso, ma sempre presente, capace di trasformarci, di purificarci, di farci entrare nel grande Mistero dell’Amore abitato dalla Trinità.


21 luglio

SAN LORENZO DA BRINDISI 

frate cappuccino e dottore della chiesa

[Udienza generale di Benedetto XVI - mercoledì, 23 marzo 2011]

 

 

Brindisi è la città che nel 1559 diede i natali a un insigne Dottore della Chiesa, san Lorenzo da Brindisi, nome che Giulio Cesare Rossi assunse entrando nell’Ordine dei Cappuccini. Sin dalla fanciullezza fu attratto dalla famiglia di san Francesco d’Assisi. Dopo la morte del padre si trasferisce con la madre a Venezia, e proprio nel Veneto conobbe i frati cappuccini, che in quel periodo si erano messi generosamente a servizio della Chiesa intera, per incrementare la grande riforma spirituale promossa dal Concilio di Trento. Nel 1575 Lorenzo, con la professione religiosa, divenne frate cappuccino, e nel 1582 fu ordinato sacerdote. Già durante gli studi ecclesiastici mostrò le eminenti qualità intellettuali di cui era dotato. Apprese facilmente le lingue antiche, quali il greco, l’ebraico e il siriaco, e quelle moderne, come il francese e il tedesco, che si aggiungevano alla conoscenza della lingua italiana e di quella latina, un tempo fluentemente parlata da tutti gli ecclesiastici e gli uomini di cultura.

 

Grazie alla padronanza di tanti idiomi, Lorenzo poté svolgere un intenso apostolato presso diverse categorie di persone. Predicatore efficace, conosceva in modo così profondo non solo la Bibbia, ma anche la letteratura rabbinica, che gli stessi Rabbini rimanevano stupiti e ammirati, manifestandogli stima e rispetto. Teologo versato nella Sacra Scrittura e nei Padri della Chiesa, era in grado di illustrare in modo esemplare la dottrina cattolica anche ai cristiani che, soprattutto in Germania, avevano aderito alla Riforma. Con la sua esposizione chiara e pacata egli mostrava il fondamento biblico e patristico di tutti gli articoli di fede messi in discussione da Martin Lutero. Tra di essi, il primato di san Pietro e dei suoi successori, l’origine divina dell’Episcopato, la giustificazione come trasformazione interiore dell’uomo, la necessità delle opere buone per la salvezza. Il successo di cui Lorenzo godette ci aiuta a comprendere che anche oggi, nel portare avanti con tanta speranza il dialogo ecumenico, il confronto con la Sacra Scrittura, letta nella Tradizione della Chiesa, costituisce un elemento irrinunciabile e di fondamentale importanza, come ho voluto ricordare nell’Esortazione Apostolica Verbum Domini (n. 46).

 

Anche i fedeli più semplici, non dotati di grande cultura, furono beneficati dalla parola convincente di Lorenzo, che si rivolgeva alla gente umile per richiamare tutti alla coerenza della propria vita con la fede professata. Questo è stato un grande merito dei Cappuccini e di altri Ordini religiosi, che, nei secoli XVI e XVII, contribuirono al rinnovamento della vita cristiana penetrando in profondità nella società con la loro testimonianza di vita e il loro insegnamento. Anche oggi la nuova evangelizzazione ha bisogno di apostoli ben preparati, zelanti e coraggiosi, perché la luce e la bellezza del Vangelo prevalgano sugli orientamenti culturali del relativismo etico e dell’indifferenza religiosa, e trasformino i vari modi di pensare e di agire in un autentico umanesimo cristiano. È sorprendente che san Lorenzo da Brindisi abbia potuto svolgere ininterrottamente questa attività di apprezzato e infaticabile predicatore in molte città dell’Italia e in diversi Paesi, nonostante ricoprisse altri incarichi gravosi e di grande responsabilità. All’interno dell’Ordine dei Cappuccini, infatti, fu professore di teologia, maestro dei novizi, più volte ministro provinciale e definitore generale, e infine ministro generale dal 1602 al 1605.

 

In mezzo a tanti lavori, Lorenzo coltivò una vita spirituale di eccezionale fervore, dedicando molto tempo alla preghiera e in modo speciale alla celebrazione della Santa Messa, che protraeva spesso per ore, compreso e commosso nel memoriale della Passione, Morte e Risurrezione del Signore. Alla scuola dei santi, ogni presbitero, come spesso è stato sottolineato durante il recente Anno Sacerdotale, può evitare il pericolo dell’attivismo, di agire cioè dimenticando le motivazioni profonde del ministero, solamente se si prende cura della propria vita interiore. "Il momento della preghiera è il più importante nella vita del sacerdote, quello in cui agisce con più efficacia la grazia divina, dando fecondità al suo ministero. Pregare è il primo servizio da rendere alla comunità. E perciò i momenti di preghiera devono avere nella nostra vita una vera priorità... Se non siamo interiormente in comunione con Dio, non possiamo dare niente neppure agli altri. Perciò Dio è la prima priorità. Dobbiamo sempre riservare il tempo necessario per essere in comunione di preghiera con nostro Signore". Del resto, con l’ardore inconfondibile del suo stile, Lorenzo esorta tutti, e non solo i sacerdoti, a coltivare la vita di preghiera perché per mezzo di essa noi parliamo a Dio e Dio parla a noi: "Oh, se considerassimo questa realtà! - esclama - Cioè che Dio è davvero presente a noi quando gli parliamo pregando; che ascolta veramente la nostra orazione, anche se noi soltanto preghiamo con il cuore e la mente. E che non solo è presente e ci ascolta, anzi può e desidera accondiscendere volentieri e con massimo piacere alle nostre domande" (Benedetto XVI).

 

Un altro tratto che caratterizza l’opera di questo figlio di san Francesco è la sua azione per la pace. Sia i Sommi Pontefici sia i principi cattolici gli affidarono ripetutamente importanti missioni diplomatiche per dirimere controversie e favorire la concordia tra gli Stati europei, minacciati in quel tempo dall’Impero ottomano. L’autorevolezza morale di cui godeva lo rendeva consigliere ricercato e ascoltato. Fu proprio in occasione di una di queste missioni diplomatiche che Lorenzo concluse la sua vita terrena, nel 1619 a Lisbona, dove si era recato presso il re di Spagna, Filippo III, per perorare la causa dei sudditi napoletani vessati dalle autorità locali.

 

Fu canonizzato nel 1881 e, a motivo della sua vigorosa e intensa attività, della sua scienza vasta e armoniosa, meritò il titolo di Doctor apostolicus, "Dottore apostolico", da parte del Beato Papa Giovanni XXIII nel 1959.  Tale riconoscimento fu accordato a Lorenzo da Brindisi anche perché egli fu autore di numerose opere di esegesi biblica, di teologia e di scritti destinati alla predicazione. Inoltre egli mette in evidenza il ruolo unico della Vergine Maria, di cui afferma con chiarezza l’Immacolata Concezione e la cooperazione all’opera della redenzione compiuta da Cristo.

 

Con fine sensibilità teologica, Lorenzo da Brindisi ha pure evidenziato l’azione dello Spirito Santo nell’esistenza del credente. Egli ci ricorda che con i suoi doni la Terza Persona della Santissima Trinità illumina e aiuta il nostro impegno a vivere gioiosamente il messaggio del Vangelo. "Lo Spirito Santo – scrive san Lorenzo – rende dolce il giogo della legge divina e leggero il suo peso, affinché osserviamo i comandamenti di Dio con grandissima facilità, persino con piacevolezza".

 

 

Vorrei completare questa breve presentazione della vita e della dottrina di san Lorenzo da Brindisi sottolineando che tutta la sua attività è stata ispirata da un grande amore per la Sacra Scrittura, che sapeva ampiamente a memoria, e dalla convinzione che l’ascolto e l’accoglienza della Parola di Dio produce una trasformazione interiore che ci conduce alla santità. San Lorenzo da Brindisi ci insegna ad amare la Sacra Scrittura, a crescere nella familiarità con essa, a coltivare quotidianamente il rapporto di amicizia con il Signore nella preghiera, perché ogni nostra azione, ogni nostra attività abbia in Lui il suo inizio e il suo compimento. E’ questa la fonte da cui attingere affinché la nostra testimonianza cristiana sia luminosa e sia capace di condurre gli uomini del nostro tempo a Dio.


VACANZE: tempo di preghiera, di incontro,

                 di bellezza e di solidarietà

 

Anche Gesù sentiva di tanto in tanto la necessità e il desiderio di un po’ di pace, per questo con i suoi discepoli si ritirava in disparte sul lago, sui monti, gustando con loro un po’ di riposo.

Anche in questo è nostro Maestro …

Con quel pizzico di calma in più tanto sognato, nelle prossime vacanze auguriamo a tutti il coraggio del silenzio, la luce degli incontri, uno sguardo di bellezza.

 

IL CORAGGIO DELLA PREGHIERA

 

 Non ho più dimenticato il racconto di mons. Angelo Comastri sul suo incontro con Madre Teresa di Calcutta:

 

La prima volta che la incontrai fui colpito dal suo sguardo: mi guardò con due occhi limpidi e penetranti. Poi lei mi chiese: "Quante ore preghi ogni giorno?". Rimasi sorpreso da una simile domanda e provai a difendermi dicendo: "Madre, da lei mi aspettavo un richiamo alla carità, un invito ad amare di più i poveri. Perché mi chiede quante ore prego?". Madre Teresa mi prese le mani e le strinse fra le sue quasi per trasmettermi ciò che aveva nel cuore, poi mi confidò: "Figlio mio, senza Dio siamo troppo poveri per aiutare i poveri! Ricordati: io sono soltanto una povera donna che prega. Pregando, Dio mi mette il suo amore nel cuore e così posso amare i poveri. Pregando!"

 

Il tempo della vacanza può regalarci la possibilità di trovare uno spazio di solitudine per meditare, per pregare, per lasciare entrare dentro di noi la forza, la tenerezza, la misericordia del nostro Dio. Nella certezza che pregare non è isolarsi dagli uomini, ma piuttosto permettere che essi entrino dentro di noi.

 

LA LUCE DEGLI INCONTRI

 

 Così ci ricorda splendidamente p. Ermes Ronchi:

 

Una leggenda ebraica  racconta che ogni uomo viene sulla terra con una piccola fiammella sulla fronte, una stella accesa che gli cammina davanti. Quando due uomini si incontrano, le loro due stelle si fondono e si ravvivano, come due ceppi sul focolare. L’incontro è riserva di luce. Quando un uomo per molto tempo è privo di incontri, la sua stella, quella che gli splende di fronte, piano piano si appanna, si fa smorta, fino a che si spegne. E va, senza più una stella che gli cammini avanti. La nostra luce vive di incontri. O la tua vita è presenza luminosa per qualcuno o non è nulla. O rischiari l’esistenza o la tristezza di qualcuno o non sei. O porti luce o muori.

 

Il tempo della vacanza può regalarci la possibilità di riconquistare e dilatare lo spazio per l’incontro, per l’ascolto, la possibilità di ritrovarsi comunicando, la possibilità di essere più spontanei, più disponibili, più teneri … e la tenerezza è il linguaggio segreto dell’anima, ciò di cui abbiamo infinitamente bisogno.

 

UNO SGUARDO DI BELLEZZA

 

È davvero meravigliosa e significativa una pagina in cui il teologo brasiliano Leonardo Boff, racconta un aneddoto riguardante sua madre:

 

"Tu che sei un teologo, hai visto Dio?", chiede al figlio. E Boff risponde: "Mamma, nessuno vede Dio". Insiste la madre: "Ma come, tanti anni che sei prete e teologo e non hai visto Dio! E’ una vergogna". Allora il figlio le chiede: "Ma tu lo vedi?". E lei: "Chiaro che lo vedo. Di quando in quando, al tramonto le nuvole si mettono in una determinata maniera. Io mi fermo a guardare e lui passa via con il suo manto, sorridendo; e dietro di lui viene tuo padre defunto, guardandomi e sorridendo, e io resto per tutta la settimana con la gioia nel cuore". Boff commenta: "La vera teologa è lei, nonostante sia analfabeta".

 

Il tempo della vacanza può regalarci la possibilità di uno sguardo nuovo e ricco di stupore, di commozione per la bellezza che ci circonda, una bellezza che rimanda oltre, fino a Dio …

 

LA SOLIDARIETÀ NON HA RIPOSO

 

Se le vacanze sono il tempo in cui ritemprarsi, ritrovare pace, dare più tempo alla preghiera, ritrovare comunicazione e tenerezza, cercare bellezza, un cristiano anche in questi mesi non può non avere attenzione e cura per coloro che restano in città per motivi di salute, di età, di denaro, per coloro che hanno così poco tempo per sé perché si prendono cura di una persona malata, anziana, diversamente abile …

Per questo, solidarietà e fraternità sono le uniche a non poter andare in vacanza. La fantasia dell’amore saprà suggerirci anche in questi mesi come non passare accanto ad alcuno con un volto indifferente, con un cuore chiuso, con un passo affrettato.

 

Fate del bene a quanti più potete

e vi capiterà tanto più spesso

di incontrare dei visi che vi mettono allegria.

(Alessandro Manzoni)

 

 

 

 

 

Buone vacanze!

nella preghiera, nella luce degli incontri,

 

nello sguardo, nel dono …


IL CAMMINO DELLA LIBERTÀ

 

L’uomo moderno – ma forse questo vale per l’uomo di ogni epoca – è molto geloso della sua libertà. Ne parla molto e la rivendica sempre. Ma che cosa intende il Vangelo per libertà? Nel vangelo di Giovanni ci sono alcune parole di Gesù di grandissimo interesse: “Gesù allora disse a quei giudei che avevano creduto in Lui: Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. Gli risposero: Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno … Gesù rispose: In verità, in verità, vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,30-34).

 

Gesù parla della libertà al futuro: “sarete liberi”. Questo perché per raggiungere la libertà occorre percorrere un cammino: rimanere nella sua Parola, essere veramente suoi discepoli, conoscere la verità. Queste le tappe.

La libertà è un punto di arrivo, non di partenza, e segna lo stacco tra il prima (una vita nella schiavitù e nella menzogna) e il dopo (una vita nella verità e nella libertà).

La libertà evangelica non è già nell’uomo, ma va accolta e costruita, e segna la differenza fra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo.

 

Se rimanete nella mia Parola”: la libertà evangelica si radica nella Parola di Gesù, cioè nella sua rivelazione.

Basta già questo a mostrare che la libertà è dono, non qualcosa che l’uomo raggiunge da sé. L’impotenza dell’uomo nei confronti della libertà evangelica non sta semplicemente nel fatto che egli – abbandonato a se stesso – non trova la forza di viverla. Sta anche nel fatto che egli neppure sa che cosa sia la vera libertà, e perciò si illude di possederla già, come i giudei che non ammettevano di essere schiavi: “Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno”. È l’incontro con la verità di Cristo che svela all’uomo la natura e l’ampiezza della libertà a cui è chiamato. 

 

Gesù dice: “se rimanete”: dunque la libertà esige un rimanere, una sorta di immobilità, che a molti sembrerà il contrario della libertà. Sì, perché per molti libero è chi può – di volta in volta – scegliere ciò che più gli aggrada o più gli è utile. La libertà evangelica, invece, esige la fedeltà. Rimanere è lo spazio della libertà, non la sua negazione. La libertà evangelica si vive in un’appartenenza. È una libertà davvero paradossale! E difatti lo spazio della libertà è l’obbedienza al Signore e il dono di sé, due modi di orientare la vita che sembrano il contrario della libertà.

 

Rileggiamo le parole di Gesù sulla libertà: “Se rimanete fedeli alla mia Parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

 

La condizione per essere liberi, dice Gesù, è di conoscere la verità. Biblicamente conoscere è molto più del semplice sapere. Conoscere la verità significa accoglierla dentro di sé, radicarla nella propria persona, sperimentarla e farla. La verità – dice altrove Gesù – non è solo da conoscere, ma da fare. La libertà è il frutto, o meglio il dono, di un’appassionata ricerca della verità: una ricerca nella vita, non nelle sole idee e nelle sole parole.

 

Che rende liberi è dunque la verità. Ma quale verità? Nel nostro modo comune di parlare la parola verità equivale per lo più a esattezza. Una definizione è vera se definisce esattamente una cosa. Un racconto è vero se narra esattamente ciò che è accaduto. Nella Bibbia invece, e specialmente nel vangelo di Giovanni, la verità è chi è Dio per noi e chi siamo noi per Lui. Se si dimentica questa verità, o se la si intende in modo sbagliato, la libertà viene meno. E difatti è l’accoglienza di questa verità che trasforma la struttura interiore dell’uomo, liberandola: sottraendola, cioè, a quelle molte schiavitù che l’uomo si costruisce. La libertà sta nell’essere se stessi. Ma essere se stessi significa appartenere a Dio. Lo spazio della libertà è la totale appartenenza al Signore. Non l’appartenenza dello schiavo, però, ma quella del figlio. Qui sta lo spazio della libertà. Il peccato invece – proprio perché rifiuta di appartenere al Signore – è menzogna e schiavitù, e distoglie l’uomo dalla sua origine, alienandolo.

 

Che rende liberi è, ripetiamolo ancora una volta, la verità. Ma non qualsiasi verità. Che rende liberi è la verità di chi è Dio per noi e di chi siamo noi per Lui. Questa verità è l’amore. Dio ci ama (ecco chi è Dio e chi è Dio per noi), e noi siamo chiamati ad essere di questo amore l’accoglienza, la trasparenza e il prolungamento (ecco chi siamo noi per Lui). La verità che rende liberi è l’amore. Lo spazio della libertà è il dono di sé. Non l’uomo che si conserva è libero, ma l’uomo che si dona. La schiavitù è l’idolatrica appartenenza a se stessi, che – ponendo il proprio io al centro – ripiega l’uomo su se stesso, precludendogli ogni altro orizzonte, sia verso Dio sia verso l’uomo sia verso il mondo.

 

Tutti parlano di liberazione. E anche il cristiano ne parla. Giustamente. Ma al cristiano è richiesto il coraggio (e la memoria) di puntare dritto al fondamento. Il cristiano è chiamato, oggi più che mai, ad andare alla radice, non a stare in superficie.

 

I fondamenti sono tre. Il primo è il riconoscimento del primato di Dio. Un riconoscimento che si fa concreto nel rifiuto di erigersi a padrone del mondo e di se stessi. E forse ancor più nell’appassionata ricerca di Dio, convinti che solo l’incontro con Lui può dare un senso al nostro vivere.

Il secondo fondamento è il riconoscimento che il mondo non è il tutto dell’uomo. Là dove questa consapevolezza si appanna, nasce fatalmente la passione dell’accumulo. Cercando il senso in cose che non lo danno, l’uomo si illude di trovarlo aumentando ciò che possiede. E questo spoglia l’uomo dalla gioia di vivere, mortificando alla radice ogni possibilità di liberazione.

 

Il terzo fondamento è il coraggio della gratuità. Una società fondata su relazioni incapaci di qualsiasi gratuità non si regge. Emargina fatalmente i più deboli. La cultura del dono deve farsi competitiva nei confronti della cultura dominata dal possesso. Impresa non facile, che richiede fede. Ma proprio perché richiede fede è un compito che appartiene, in primo luogo, al cristiano.

 

***

 

Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi: siate dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (san Paolo ai cristiani della Galazia: 5,1)

 

***

Preghiera per la libertà(di Joseph Ratzinger)

 

Signore Gesù Cristo, ti sei fatto inchiodare sulla croce,   accettando la terribile crudeltà di questo dolore,  la distruzione del tuo corpo e della tua dignità.   Ti sei fatto inchiodare,   hai sofferto senza fughe e senza compromessi. Aiutaci a non fuggire di fronte a ciò che siamo chiamati ad adempiere.  Aiutaci a farci legare strettamente a te. Aiutaci a smascherare quella falsa libertà   che ci vuole allontanare da te. Aiutaci ad accettare la tua libertà “legata” e a trovare nello stretto legame con te la vera libertà.


TRIDUO IN PREPARAZIONE

alla SOLENNITA’ del SACRO CUORE di GESU’

 

L’Eucaristia delle ore 18,00 sarà quindi animata dai frati del Centro missionario di Milano - Musocco:

 

-          lunedì 3 giugno:  ………   fra Marino Pacchioni

-          martedì 4 giugno: ……..   fra Mauro Miselli

-          mercoledì 5 giugno: …...  fra Agostino Valsecchi

 

Ø  venerdì 7 giugno alle ore 18,00 presiederà la celebrazione eucaristica fra ALESSANDRO De Marchi, frate cappuccino ordinato presbitero il 25 maggio.

 

 

Ø  domenica 9 giugno alle ore 10,30 presiederà la celebrazione eucaristica fra JUDE Berinyuy Lukong, frate cappuccino del Cameroun ordinato presbitero il 17 maggio.


LA FEDE E IL PERDONO

di Ingrid Betancourt *  in “Avvenire”  21 Gennaio 2009

 

 

Ho scoperto la fede in Dio durante la mia prigionia. Fino ad allora, la mia fede era basata sul ritualismo: come molti cattolici, andavo a messa, pregavo, ma la mia conoscenza di Dio era molto limitata. Quando mi sono ritrovata nella giungla, ho avuto molto tempo e per unica lettura la Bibbia,. Ho avuto il piacere, in sei anni, di leggerla, di meditarla. Se avessi avuto altre cose da fare, avrei fatto altro, perché si è sempre pigri per riflettere sull’essenziale.

 

Forse era una prigionia necessaria. Essa mi ha permesso di capire chi è Dio, di stabilire una relazione con lui, con molta ammirazione, molto amore ma – soprattutto – comprendendo chi è, attraverso la sua parola. Per me non si tratta di parole vuote ma di una realtà: leggendo la Bibbia, ho compreso il carattere di Dio; non è solo una luce, un’energia o soltanto una forza, ma è una Parola, qualcuno che vuole comunicare con me. Non ho avuto illuminazioni, no! Ho semplicemente letto la Bibbia, razionalmente. Sono stata colpita da tutti i brani che mi hanno connesso emozionalmente e interiormente con la parola di Dio. Ho sentito la voce di Dio in un modo assai umano e molto concreto.

 

Leggevo e rileggevo alcuni passaggi dicendomi: “Questo è stato scritto per me! “ . Avevo sentito a lungo senza capire e, di colpo, è stato come se mi fossi collegata alla presa di corrente giusta. In un momento, la luce si accende e si capiscono tutte le cose che erano rimaste oscure. Ancora una volta, non si tratta di un’esperienza mistica ma razionale, che ha profondamente trasformato la mia vita. Come sono cambiata! Oggi il mio tempo non è il tempo di prima. Avevo sempre voglia che le cose andassero in fretta. Oggi non mi preoccupo più: so che tutto capita al tempo giusto. La mia speranza dunque è più forte. Il passaggio attraverso la prigionia non ha ucciso la mia volontà, anzi ha cambiato la natura della mia speranza. La sola risposta alla violenza è una risposta d’amore. Questa risposta d’amore, questo atteggiamento non violento, per me, ha avuto origine dalla fede cristiana. Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino.

 

Mi dicevo: “Per Te, Signore, non dico che lo detesto “ . Il fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di perdono. Sono riuscita a perdonare, e non solo ai miei sequestratori. Ho perdonato anche quelli che erano prigionieri con me, con i quali talvolta ci sono stati momenti molto difficili. Ho perdonato quei miei amici che non si sono ricordati di noi, quelle persone sulle quali si fa affidamento e che sono mancate; quelle persone che amavo e che hanno detto delle cose orribili, come, ad esempio, che la prigionia me l’ero cercata. Oggi credo più profondamente che possiamo cambiare il mondo perché io stessa sono stata trasformata. Ma, in questo mondo di dominio e di possesso, so come è nel cuore che si generano i cambiamenti essenziali. La pace, che sogniamo, sarà possibile il giorno in cui ci sarà un atteggiamento diverso nei cuori.

 

 

* Chi è Ingrid Betancourt?  Nasce a Bogotá, 25 dicembre 1961. E’ figlia di un ex ministro dell'educazione e di una ex senatrice; ha vissuto all'estero la maggior parte della propria vita, soprattutto in Francia, dove ha studiato presso l'Institut d'études politiques di Parigi. Militante nella difesa dei diritti umani, ha fondato il partito di centro-sinistra "Partido Verde Oxígeno". È stata rapita il 23 febbraio 2002 dalla guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) e liberata dalla prigionia il 2 luglio 2008: più di 6 anni di sequestro! Questa è la sua testimonianza raccolta per il settimanale francese “La Vie” da Elisabeth Marshall e riportata da “AVVENIRE” il 21 gennaio 2009.


13 giugno: SANT'ANTONIO DA PADOVA,

catechesi di Benedetto XVI - 10 febbraio 2010

 

[…] Vorrei parlare di un altro santo appartenente alla prima generazione dei Frati Minori: Antonio di Padova o, come viene anche chiamato, da Lisbona, riferendosi alla sua città natale. Si tratta di uno dei santi più popolari in tutta la Chiesa Cattolica, venerato non solo a Padova, dove è stata innalzata una splendida Basilica che raccoglie le sue spoglie mortali, ma in tutto il mondo. Sono care ai fedeli le immagini e le statue che lo rappresentano con il giglio, simbolo della sua purezza, o con il Bambino Gesù tra le braccia, a ricordo di una miracolosa apparizione menzionata da alcune fonti letterarie. Antonio ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della spiritualità francescana, con le sue spiccate doti di intelligenza, di equilibrio, di zelo apostolico e, principalmente, di fervore mistico.

 

Nacque a Lisbona da una nobile famiglia, intorno al 1195, e fu battezzato con il nome di Fernando. Entrò fra i Canonici che seguivano la regola monastica di sant'Agostino, dapprima nel monastero di San Vincenzo a Lisbona e, successivamente, in quello della Santa Croce a Coimbra, rinomato centro culturale del Portogallo. Si dedicò con interesse e sollecitudine allo studio della Bibbia e dei Padri della Chiesa, acquisendo quella scienza teologica che mise a frutto nell'attività di insegnamento e di predicazione. A Coimbra avvenne l'episodio che impresse una svolta decisiva nella sua vita: qui, nel 1220 furono esposte le reliquie dei primi cinque missionari francescani, che si erano recati in Marocco, dove avevano incontrato il martirio. La loro vicenda fece nascere nel giovane Fernando il desiderio di imitarli e di avanzare nel cammino della perfezione cristiana: egli chiese allora di lasciare i Canonici agostiniani e di diventare Frate Minore. La sua domanda fu accolta e, preso il nome di Antonio, anch'egli partì per il Marocco, ma la Provvidenza divina dispose altrimenti. In seguito a una malattia, fu costretto a rientrare in Italia e, nel 1221, partecipò al famoso "Capitolo delle stuoie" ad Assisi, dove incontrò anche san Francesco. Successivamente, visse per qualche tempo nel totale nascondimento in un convento presso Forlì, nel nord dell'Italia, dove il Signore lo chiamò a un'altra missione. Invitato, per circostanze del tutto casuali, a predicare in occasione di un'ordinazione sacerdotale, mostrò di essere dotato di tale scienza ed eloquenza, che i Superiori lo destinarono alla predicazione. Iniziò così in Italia e in Francia, un'attività apostolica tanto intensa ed efficace da indurre non poche persone che si erano staccate dalla Chiesa a ritornare sui propri passi. Fu anche tra i primi maestri di teologia dei Frati Minori, se non proprio il primo. Iniziò il suo insegnamento a Bologna, con la benedizione di Francesco, il quale, riconoscendo le virtù di Antonio, gli inviò una breve lettera, che si apriva con queste parole: "Mi piace che insegni teologia ai frati". Antonio pose le basi della teologia francescana che, coltivata da altre insigni figure di pensatori, avrebbe conosciuto il suo apice con san Bonaventura da Bagnoregio e il beato Duns Scoto.

 

Diventato Superiore provinciale dei Frati Minori dell'Italia settentrionale, continuò il ministero della predicazione, alternandolo con le mansioni di governo. Concluso l'incarico di Provinciale, si ritirò vicino a Padova, dove già altre volte si era recato. Dopo appena un anno, morì alle porte della Città, il 13 giugno 1231. Padova, che lo aveva accolto con affetto e venerazione in vita, gli tributò per sempre onore e devozione. Lo stesso Papa Gregorio IX, che dopo averlo ascoltato predicare lo aveva definito "Arca del Testamento", lo canonizzò nel 1232, anche in seguito ai miracoli avvenuti per sua intercessione.

 

Nell'ultimo periodo di vita, Antonio mise per iscritto due cicli di "Sermoni", intitolati rispettivamente "Sermoni domenicali" e "Sermoni sui Santi", destinati ai predicatori e agli insegnanti degli studi teologici dell'Ordine francescano. Si tratta di testi teologico-omiletici, che riecheggiano la predicazione viva, in cui Antonio propone un vero e proprio itinerario di vita cristiana. È tanta la ricchezza di insegnamenti spirituali contenuta nei "Sermoni", che il Venerabile Papa Pio XII, nel 1946, proclamò Antonio Dottore della Chiesa, attribuendogli il titolo di "Dottore evangelico", perché da tali scritti emerge la freschezza e la bellezza del Vangelo; ancora oggi li possiamo leggere con grande profitto spirituale. In essi, egli parla della preghiera come di un rapporto di amore, che spinge l'uomo a colloquiare dolcemente con il Signore, creando una gioia ineffabile, che soavemente avvolge l'anima in orazione. Antonio ci ricorda che la preghiera ha bisogno di un'atmosfera di silenzio che non coincide con il distacco dal rumore esterno, ma è esperienza interiore, che mira a rimuovere le distrazioni provocate dalle preoccupazioni dell'anima. […] In questo insegnamento di sant'Antonio sulla preghiera cogliamo uno dei tratti specifici della teologia francescana, di cui egli è stato l'iniziatore, cioè il ruolo assegnato all'amore divino, che entra nella sfera degli affetti, della volontà, del cuore, e che è anche la sorgente da cui sgorga una conoscenza spirituale, che sorpassa ogni conoscenza. Scrive ancora Antonio: "La carità è l'anima della fede, la rende viva; senza l'amore, la fede muore" (Sermones Dominicales et Festivi II, Messaggero, Padova 1979, p. 37). Soltanto un'anima che prega può compiere progressi nella vita spirituale: è questo l'oggetto privilegiato della predicazione di sant'Antonio. Egli conosce bene i difetti della natura umana, la tendenza a cadere nel peccato, per cui esorta continuamente a combattere l'inclinazione all'avidità, all'orgoglio, all'impurità, e a praticare invece le virtù della povertà e della generosità, dell'umiltà e dell'obbedienza, della castità e della purezza. Agli inizi del XIII secolo, nel contesto della rinascita delle città e del fiorire del commercio, cresceva il numero di persone insensibili alle necessità dei poveri. Per tale motivo, Antonio più volte invita i fedeli a pensare alla vera ricchezza, quella del cuore, che rendendo buoni e misericordiosi, fa accumulare tesori per il Cielo. "O ricchi - così egli esorta - fatevi amici... i poveri, accoglieteli nelle vostre case: saranno poi essi, i poveri, ad accogliervi negli eterni tabernacoli, dove c'è la bellezza della pace, la fiducia della sicurezza, e l'opulenta quiete dell'eterna sazietà" (Ibid., p. 29). Non è forse questo un insegnamento molto importante anche oggi, quando la crisi finanziaria e i gravi squilibri economici impoveriscono non poche persone, e creano condizioni di miseria? Nella mia Enciclica Caritas in veritate ricordo: "L'economia ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento, non di un'etica qualsiasi, bensì di un'etica amica della persona" (n. 45). Antonio, alla scuola di Francesco, mette sempre Cristo al centro della vita e del pensiero, dell'azione e della predicazione. È questo un altro tratto tipico della teologia francescana: il cristocentrismo. Volentieri essa contempla, e invita a contemplare, i misteri dell'umanità del Signore, in modo particolare, quello della Natività, che gli suscitano sentimenti di amore e di gratitudine verso la bontà divina.

 

Anche la visione del Crocifisso gli ispira pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della persona umana, così che tutti, credenti e non credenti, possano trovarvi un significato che arricchisce la vita. Scrive Antonio: "Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella croce come in uno specchio. Lì potrai conoscere quanto mortali furono le tue ferite, che nessuna medicina avrebbe potuto sanare, se non quella del sangue del Figlio di Dio. Se guarderai bene, potrai renderti conto di quanto grandi siano la tua dignità umana e il tuo valore... In nessun altro luogo l'uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce" (Sermones Dominicales et Festivi III, pp. 213-214).

 

Cari amici, possa Antonio di Padova, tanto venerato dai fedeli, intercedere per la Chiesa intera, e soprattutto per coloro che si dedicano alla predicazione. Questi, traendo ispirazione dal suo esempio, abbiano cura di unire solida e sana dottrina, pietà sincera e fervorosa, incisività nella comunicazione. In quest'anno sacerdotale, preghiamo perché i sacerdoti e i diaconi svolgano con sollecitudine questo ministero di annuncio e attualizzazione della Parola di Dio ai fedeli, soprattutto attraverso le omelie liturgiche. Siano esse una presentazione efficace dell'eterna bellezza di Cristo, proprio come Antonio raccomandava: "Se predichi Gesù, egli scioglie i cuori duri; se lo invochi, addolcisci le amare tentazioni; se lo pensi, ti illumina il cuore; se lo leggi, egli ti sazia la mente" (Sermones Dominicales et Festivi III, p. 59).

 

 

 

PREGHIERA A SANT’ANTONIO

 

 

O Dio, Padre buono e misericordioso, che hai scelto S. Antonio come testimone del Vangelo e messaggero di pace in mezzo al tuo popolo, ascolta la preghiera che ti rivolgiamo per sua intercessione:  santifica ogni famiglia, aiutala a crescere nella fede; conserva in essa l’unità, la pace, la serenità. Benedici i nostri figli, proteggi i giovani. Soccorri quanti sono provati dalla malattia, dalla sofferenza e dalla solitudine. Sostienici nelle fatiche d’ogni giorno, donandoci il tuo amore. Per Cristo nostro Signore.  Amen.


 

 

1)   DOMENICA DI PENTECOSTE  - 2013

 

Riflessione sulla Parola di Dio

Il Vangelo della domenica di Pentecoste ripropone un brano molto denso dei discorsi di addio di Giovanni (14,15-26). I passi in cui Gesù parla dello Spirito consolatore si inseriscono in un preciso contesto esistenziale: il tempo della Chiesa con i suoi problemi e i suoi interrogativi, l’odio del mondo, la persecuzione, l’incredulità che perdona. Alla luce di questo contesto si comprendono bene i tre compiti fondamentali che Giovanni assegna allo Spirito: conservare fedelmente la memoria di Gesù, la comprensione interiore e personale della sua parola, il coraggio della testimonianza. Nel nostro passo specifico un’idea forte – forse la più importante – è che la condizione per accogliere lo Spirito è l’amore a Gesù, l’ascolto della sua parola e l’osservanza dei comandamenti. Tre cose, dunque, molto concrete e persino verificabili. Se mancano queste tre condizioni non c’è alcun spazio per lo Spirito.

 

Ma a questo punto suggerisco di dare anche uno sguardo alla passo della lettera di Paolo ai Romani (8, 8-17) che costituisce la seconda lettura della Messa. Paolo insegna che lo Spirito è libertà, perché ci libera dalla schiavitù della carne, cioè dall’egoismo. Lo Spirito trasforma i desideri dell’uomo: non più i desideri dell’egoismo, ma della carità. Prigioniero del suo egoismo (la carne) l’uomo sente la legge dell’amore (la legge di Dio) come un peso e una schiavitù. Lo Spirito muta il «desiderio» dell’uomo: la legge della carità diviene ciò che desidera, a cui tende. Lo Spirito libera l’uomo trasformandolo dall’interno, capovolgendo la natura profonda del «desiderio».

 

Ma non si tratta solo di questo. Lo Spirito rinnova anche il rapporto con Dio: non più schiavi, ma figli. E anche questo è grande libertà. Se poi Paolo precisa che si tratta di una filiazione «adottiva», non è per sminuirla, tanto meno per affermare che si tratta di qualcosa di esterno e giuridico, ma per ricordarne la gratuità. Per Paolo la presenza dello Spirito è una presenza liberante, che si lascia discernere da alcuni segni: un capovolgimento nella logica della vita, un nuovo rapporto con Dio sperimentato come Padre, l’intima convinzione (a dispetto delle smentite, della poca fede e dello stesso peccato) di essere figli di Dio. È dunque un nuovo rapporto con Dio: l’uomo può rivolgersi a Lui liberamente, francamente e confidenzialmente.

 

Non più un rapporto di schiavitù ma di libertà: il cristiano può far sua la medesima confidenza e la medesima libertà di Gesù verso il Padre. Questo rapporto filiale con Dio è la radice di ogni altra libertà [BM]

 

2)   I “MIRACOLI” DELLO SPIRITO SANTO

 

Lo Spirito è chiamato a compiere tre miracoli.

 

Il primo è di attualizzare l'evento storico di Gesù, accaduto in un tempo e in un luogo, rendendolo disponibile per ogni tempo e per ogni luogo. Lo Spirito è il protagonista che mantiene aperta la storia di Gesù rendendola perennemente attuale e salvifica. Senza lo Spirito, la storia di Gesù - compresa la sua risurrezione - sarebbe rimasta una storia chiusa nel passato, non un evento perennemente contemporaneo. Lo Spirito è la continuità fra il tempo di Gesù e il tempo ella Chiesa. Certamente ci sono anche altri fattori di continuità: le Scritture, il ricordo delle parole di Gesù, gli apostoli. Tuttavia il vero fattore della continuità è lo Spirito.

 

Il secondo miracolo - sul quale il brano evangelico di questa domenica insiste - è di trasformare il discepolo in testimone: «Lo Spirito di verità... testimonierà in mio favore. Anche voi mi testimonierete, perché siete con me dall'inizio». Nel grande processo tra Cristo e il mondo che si svolge entro tutta la storia, lo Spirito depone in favore di Gesù. Non si tratta di una testimonianza direttamente rivolta al mondo, ma rivolta al mondo attraverso il discepolo. Lo Spirito testimonia nel cuore del discepolo. Davanti alle ostilità che incontreranno i discepoli saranno esposti al dubbio, allo scandalo e allo scoraggiamento: lo Spirito difenderà Gesù nel loro cuore, li renderà sicuro nella loro disobbedienza al mondo. I discepoli avranno bisogno di certezza: lo Spirito gliela offrirà.

 

Il terzo miracolo è di suscitare un incontro personale, intimo, pieno, con il Signore e la sua verità: «Lo Spirito Santo... vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà quanto io vi ho detto... Egli vi guiderà alla pienezza della verità». L'insegnamento dello Spirito è anzitutto memoria: lo Spirito ripete le parole di Gesù. Non aggiunge a esso altre sue personali verità. E tuttavia il suo insegnamento non è ripetitivo, non è semplice memoria. Non aggiunge nulla alla rivelazione di Gesù, però la interiorizza e la rende presente in tutta la sua pienezza. E come abbiamo già visto la attualizza. Il Vangelo dice: «Vi guiderà verso e dentro la pienezza della verità». Dunque una conoscenza interiore, viva e attuale e progressiva. Non un progressivo accumulo di conoscenze, ma piuttosto un progressivo viaggio verso il centro: dall'esterno all'interno, dalla periferia al centro, da una conoscenza per sentito dire, a una comprensione personale, attuale e trasformante.

 

 

3)   PREGHIAMO

 

Rit.  Spirito Santo, vivifica i nostri cuori

L. Spirito Santo, luce che conduce alla verità, invadi il nostro animo perché possiamo conoscere l’intimità della vita divina, preghiamo:

L. Spirito Santo, che sei la forza del debole, assistici con il tuo aiuto nella sequela di Gesù, preghiamo:

L.Spirito Santo, illumina i giovani perché sappiano superare l’egoismo e aprirsi al dono di sé, preghiamo:

L.Spirito Santo, fa’ che tra gli sposi l’amore sia totale, pieno, completo, regolato dalla tua legge, preghiamo:

L.Spirito Santo, fa’ che gli sposi, attraverso il loro reciproco amore, sappiano affrontare le difficoltà della vita, preghiamo:

L. Spirito santo, sostieni i genitori perché siano tuoi collaboratori nella creazione, preghiamo:

L.Spirito Santo, fa’ che ogni famiglia diventi sempre più un piccolo cenacolo, dove Gesù regna sopra tutti gli affetti e le azioni, preghiamo:

L.Spirito Santo, concedi a tutti di scoprire che il segreto della felicità sta nell’amore, preghiamo:

L.Spirito Santo, fa’ che, con te nel cuore, godiamo della gioia di amarci, preghiamo:

L.Spirito Santo, fa’ che la bellezza dell’amore sia vissuta in pienezza nella vita eterna, preghiamo:


L’IMMAGINE EVANGELICA DI MARIA

 

 

Introduzione

La presentazione che il vangelo ci consegna di Maria ha qualcosa di simile a un dipinto con queste caratteristiche: poche pennellate, molto spazio bianco, colori tenui, contorni non totalmente definiti, soggetti semplici e senza pretesa, atmosfera di sacro silenzio. Le poche pennellate cadono armoniosamente in posti appropriati; grazie ad esse anche lo spazio bianco diventa denso di significato. Il tutto invita a spiare il mistero e riconoscerlo operante nella trama dei giorni di Maria. Parlare di Maria - diceva san Bernardo - non si finisce mai, ma anche la contemplazione dei pochi tratti evangelici su Maria non ha mai fine. Cercherò di far emergere il suo cammino interiore, la sua “peregrinazione della fede” in intima unione con Gesù. Tuttavia, sebbene in ordine alla redenzione Maria abbia un ruolo singolare, la sua peregrinazione della fede è anche paradigma della peregrinazione nella fede del discepolo.

 

Dal “come avverrà questo” all’eccomi

Al messaggio sorprendente di Gabriele la risposta di Maria non scatta in modo istantaneo ed irriflesso. La sua prima reazione è quella del turbamento, tipico di chi è consapevole di trovarsi di fronte a qualcosa che lo trascende infinitamente, ad una novità insospettata di cui non riesce a cogliere subito il senso. Non si tratta di un dubbio scaturito dall’incredulità, bensì del senso di stupore di fronte alla sproporzione tra la grandezza della proposta e la limitatezza effettiva della capacità di realizzazione. È l’atteggiamento dell’umile e del riflessivo, di chi cioè è cosciente della propria piccolezza e si avvicina al mistero con timidezza e discrezione, attento a penetrarne il senso. È il sentimento del povero che sa meravigliarsi di fronte ai doni gratuiti.

La seconda reazione di Maria è una richiesta di chiarimento. Maria invoca luce: “Come avverrà questo?” e manifesta il dilemma del suo voler acconsentire, ma non saper come. Ella domanda a Dio che cosa dovrà fare per essere in grado di obbedire. Lo spirito di Maria è come quello del salmista quando prega Dio dicendo: “Fammi conoscere la via dei tuoi precetti e mediterò i tuoi prodigi... Dammi intelligenza perché osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore” (Sal 119, 27.34). Dopo che l’angelo le ha manifestato in che modo è resa protagonista, luogo e testimone di “grandi cose”, Maria accetta con piena disponibilità, passando così dal “come avverrà”, al fiat, “avvenga”. Il fiat di Maria, come quello insegnatoci da Gesù nel Padre nostro (Mt 6,10), è un abbandono fiducioso e un desiderio gioioso di realizzare la volontà di Dio. Con il suo fiat ella ricapitola tutta la schiera degli obbedienti nella fede nell’Antico Testamento e inaugura il nuovo popolo pronto ad ascoltare la voce di Dio che ora parla per mezzo del suo Figlio.

La dinamica del cammino interiore di Maria risulta ancor più chiara se si prende in considerazione il confronto intenzionale fatto da Luca tra due annunciazioni: a Zaccaria e a Maria. Zaccaria, anziano e stimato, sacerdote, uomo giusto, rappresentante ideale della religiosità anticotestamentaria, incontra l’angelo in Gerusalemme, nel tempio, durante il culto. Uomo santo, luogo santo, tempo santo: tutto sottolinea la sacralità e la solennità dell’evento. Maria, invece, una sconosciuta ragazza di Nazaret, città disprezzata, da cui non potrebbe venire qualcosa di buono (cf Gv 1,46), incontra l’angelo nella quotidianità semplice e domestica. Ma Dio capovolge le posizioni. L’angelo entra “da lei”, è Maria in realtà il tempio dell’Altissimo. Ella “ha trovato grazia presso Dio”, il dono divino giunge a lei gratuitamente, non a causa della sua osservanza della legge o in risposta alla sua preghiera di domanda, come è nel caso di Zaccaria. Anche la conclusione dei racconti è diversa: Maria crede, si apre e diventa collaboratrice di Dio nel salvare il mondo, mentre Zaccaria si chiude nel suo mutismo, isolato, perché chi non crede al disegno di Dio non può nemmeno parlarne.

 

Camminare in fretta” e “conservare tutto nel cuore

La premura del cammino verso Ain Karim, come poi la sollecitudine alle nozze di Cana, mostrano lo stile attivo, intraprendente, creativo, risoluto di Maria. Maria non guarda alle distanze, ai rischi possibili, non calcola il tempo, non misura la fatica. L’ardore nel cuore le mette ali ai piedi. Ella si sente spinta, mandata da quel Dio che porta dentro. Ma il camminare di Maria non è solo movimento esterno, è un andare restando nel Signore, un partire dimorando in lui, un viaggiare portandolo dentro di sé. È la vita interiore che muove, dirige, avvolge e dà senso all’azione esteriore; è il silenzio che fa maturare la parola. Ella unisce la contemplazione nell’incontro col mistero alla concreta azione nell’esperienza del servizio; fonde in armonia il più grande trasporto nei confronti di Dio e il più grande realismo nel confronti del mondo e della storia. Alla sollecitudine e laboriosità esterna corrisponde un’attività vivace interna. Maria “conserva tutte le cose nel cuore meditando” (Lc 2,19.51). Luca ha voluto sottolineare l’atteggiamento riflessivo e sapiente di Maria di fronte al mistero ripetendo questa frase per due volte. È un’espressione che apre profondi spiragli sulla vita interiore di Maria. Maria, Vergine sapiente, Vergine in ascolto, è una donna dal cuore grande, capace di conservare le “grandi cose” operate da Dio in lei nella storia, capace di far memoria delle meraviglie di Dio, capace di collegare dentro di sé il passato con il presente, trasformando tutto in seme di futuro. Ella non capisce subito tutto, ma ospita tutto nel suo cuore, si apre al mistero lasciandosi coinvolgere e rispettando i ritmi della rivelazione storica di Dio. I discepoli di Gesù devono imparare da Maria, Maestra sapiente, il segreto dell’unificazione vitale tra interiorità e attività, tra essere e fare, tra credere e operare, tra preghiera e lavoro, tra memoria e creatività, tra concentrazione e diffusione della parola di Dio, tra “conservare tutto nel cuore” e “camminare in fretta”, tra l’accogliere il dono di Dio e il farsi dono di Dio per gli altri.

Maria parte da Nazaret e si mette in cammino dietro un “segno” datole dall’angelo: “Vedi, anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio” (Lc 1,36). Questo fatto deve essere per Maria una prova della potenza di Dio a cui “nulla è impossibile” (Lc 1,37). Maria cammina verso la montagna animata dalla fiducia in Dio. Ma tale fiducia è rafforzata dal “segno” offertole da Dio; in realtà, ella stessa è un segno di Dio dato all’umanità, “un segno di speranza e di consolazione”. Infatti Maria segna l’aurora che precede il sorgere del sole, segna l’irrompere della salvezza nella storia, segna “la pienezza del tempo” (Gal 4,4). Mentre Isacco, il bambino di Sara, e Giovanni, il bambino di Elisabetta, portano il messaggio che Dio può tutto, il bambino di Maria è il Dio che può tutto, il Dio onnipotente fattosi uomo debole e nascosto. Nel cammino di fede di Maria, c’è una circolarità tra lo scoprire il segno di Dio negli altri e l’essere segno di Dio per altri. Si tratta della meravigliosa solidarietà tra i credenti. Il prodigio di Dio in Elisabetta è per Maria un “segno” che l’aiuta a pronunciare il suo fiat; ora il prodigio di Dio in Maria è segno per Elisabetta, un segno che suscita in lei una confessione di fede. Così le due donne sono, l’una per l’altra, luogo di scoperta di Dio, motivo per cui lodarlo e ringraziarlo. Nel riconoscersi reciprocamente come segno di Dio, la loro comunicazione, densa di intuizione e di intesa profonda, permeata dal rispetto per il mistero, si fa benedizione, si fa canto e poesia. Il confronto vicendevole nella fede fa sgorgare la profezia vicendevole, animata dalla forza dello Spirito. Insieme, tutte e due, diventano segno della solidarietà di Dio con tutta l’umanità.

 

Dal fiat al magnificat

Mentre Maria percorre in fretta le vie tortuose della montagna, dentro di lei si snoda un itinerario interiore di fede che va dall’adesione docile del fiat all’esplosione gioiosa del Magnificat, dall’essere visitata da Dio all’essere visita di Dio per altri. Salendo sulla montagna Maria sente di non essere sola. Il Figlio di Dio è presente, nascosto in lei. Con il suo camminare per vie scomode per raggiungere l’altro a casa sua, Maria inaugura lo stile di Dio, lo stile di servizio, di abbassamento, di solidarietà verso chi ha bisogno. In lei il Dio incarnato si fa il Dio che entra nella trama umana e permea di sé anche la sfera del quotidiano. La salvezza acquista tonalità domestica. “Oggi devo entrare in casa tua”, “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 19, 5.9): ciò che Gesù dirà più tardi nell’incontro con Zaccheo è in qualche modo realtà anticipata per mezzo di Maria.

Maria porta gioia e speranza. Dalla Galilea alla Giudea ella percorre lo stesso tratto di strada che più tardi avrebbe dovuto fare Gesù. La buona novella portata da Maria emana gioia contagiosa, fa esultare un bambino nel grembo materno, rende felice un’anziana. Lungo tutta la sua vita Maria continua a moltiplicare e diffondere dappertutto la gioia pura di cui ella è ripiena, quella gioia scaturita dal saluto dell’angelo “Rallegrati Maria” e resa più intima e profonda dal suo fiat. Alla nascita di Gesù questa gioia si estenderà ai pastori di Betlemme attraverso l’annuncio dell’angelo: “Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10). Portando Gesù nel tempio Maria farà ancora trasalire di gioia l’anziano Simeone e la profetessa Anna. A Cana, poi, la gioia non verrà a mancare al banchetto delle nozze grazie all’intercessione di Maria presso il suo Figlio. A Maria, portatrice della Buona Novella e madre del Dio della gioia, si potrebbe applicare la parola del salmista: “Al tuo passaggio stilla l’abbondanza... tutto canta e grida di gioia” (Sal 65, 12-14). Cosa stilla al mio passaggio?

Dal fiat al magnificat diventa l’itinerario esemplare di ogni cristiano che compie il suo pellegrinaggio della fede dall’adesione iniziale al progetto di Dio verso il pieno godimento della bellezza di questo progetto, passando attraverso una “salita” graduale: il servizio, la gratuità del quotidiano, l’andare con sollecitudine verso chi ha bisogno, l’incontro di amicizia nella comunità, lo sforzo missionario nel portare Gesù in casa altrui, l’annunciare la buona novella con gioia suscitando gioia di salvezza in chi si apre alla vita.

Nel racconto della nascita di Gesù Luca riporta il gesto delicato di Maria: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia” (Lc 2,7). È un gesto semplice che esprime tutto l’affetto materno, tenero e rispettoso di Maria verso questo bambino che è Figlio di Dio e figlio suo. Ci sono i giorni in cui più chiaramente avvertiamo la presenza del Signore nella nostra vita, quelli in cui non ci è difficile manifestargli attenzione e premura. Ma vengono anche quelli in cui sembra farsi assente, i giorni in cui sembra non confermare quanto pure abbiamo già vissuto con lui. Il lungo periodo della vita “nascosta” a Nazaret, durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica, è riassunto da Luca in poche parole. Egli racconta un solo episodio della vita di Gesù adolescente: quello della Pasqua a Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni. Il viaggio alla città santa di Gesù dodicenne segna una tappa della crescita di Gesù, è l’anticipazione di un altro viaggio a Gerusalemme che culminerà nella sua Pasqua. L’episodio segna anche la crescita della madre. Ritrovato Gesù nel tempio dopo tre giorni, Maria gli domanda: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo” (Lc 2,48) Nel “perché” di Maria è il riassunto di tanti perché dell’umanità intorno al mistero della croce e, nella sua ansia, l’angoscia di tante persone che cercano faticosamente Dio. Alla domanda della madre, Gesù dà per risposta due altre domande: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Egli ha un “deve” nel disegno del Padre, con la crescita in età e in sapienza egli cresce soprattutto nella coscienza della sua missione. Anche Maria cresce nell’accoglienza dell’identità di Gesù - questo figlio che ella ha avvolto in fasce alla nascita non è solo figlio suo - e cresce nella consapevolezza d’essere anche lei depositaria del mistero di Dio; lo sapeva già fin dal momento dell’annuncio dell’angelo, ora tutto appare più vivo e reale, e allo stesso tempo più duro e più incomprensibile. Accanto al suo Figlio anche Maria ha un “deve” nelle cose del Padre. Anche io ho un devo nel mistero di Dio che scopro in quella alternanza di presenza/assenza.

 

Dal fiat al fate

Maria è diventata Madre di Dio perché ha “creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45): così Elisabetta rilegge il fiat di Maria. Alla pienezza di grazia da parte di Dio corrisponde la pienezza di fede da parte di Maria. Abbandonata a Dio completamente, impegnata nell’avanzare costantemente nella “peregrinazione della fede”, Maria si è sintonizzata lentamente e profondamente con Dio. Per la sua viva fede ella arriva a una forte intesa con lui, a un acclimatamento di tutto il suo essere con il progetto di Dio, ad avere un’intuizione del pensiero di Dio, a saper discernere spontaneamente la sua volontà, a sentir palpitare dentro di sé il cuore di Dio. La Lettera agli Ebrei, elogiando la fede degli antenati di Israele, dice di Mosé che vive “come se vedesse l’invisibile” (Eb 11,27). A Cana di Galilea la troviamo così, semplice, discreta, fiduciosa accanto al suo Figlio, sicura di essere esaudita perché intimamente sintonizzata con lui. A Cana Maria riveste un ruolo profetico. È “portavoce della volontà di Dio”. Le due parole pronunciate da Maria a Cana: “Non hanno più vino” (Gv 2,3) e “Fate quello che vi dirà” (Gv 2,5) mettono in risalto questa dimensione. Maria legge in profondità la storia umana, ne individua i problemi ancora nascosti, raccoglie i gemiti non ancora verbalizzati, scorge la sofferenza ancora senza nome. Ella scopre il nodo essenziale del guazzabuglio e lo presenta al suo Figlio, l’unico che lo può sciogliere. E intanto prepara i servi all’accoglienza dell’aiuto divino con un’indicazione sicura. E non è forse il compito di noi che veniamo costituiti pastori quello di intercettare le domande inespresse e portarle davanti al Signore? “Fate quello che egli vi dirà” è tra le poche parole pronunciate da Maria nel Vangelo, l’unica indirizzata agli uomini, per questo a ragione viene considerata “il comandamento della Vergine”. È anche l’ultima parola sua registrata nel Vangelo, quasi un “testamento spirituale”. Dopo questo, Maria non parlerà più; ha detto l’essenziale aprendo i cuori a Gesù, lui solo ha “parole di vita eterna” (Gv 6,68). Il “fate quello che egli vi dirà” pronunciato da Maria non è un invito teorico, astratto, ma è un’esortazione maturata dall’esperienza personale. La parola va nel cuore e nella vita dell’interlocutore solo se è scaturita dal cuore e dalla vita di chi parla. Maria, esperta nel fidarsi della parola di Dio, ora può aiutare altri a fare altrettanto. La sua fede è contagiosa, il fiat vissuto in profondità da lei diventa fate convincente rivolto ad altri. È necessario per noi come Maria avere le antenne contemporaneamente tese verso Dio e verso la storia. Solo una profonda intesa con Dio e una saggia comprensione del mondo possono dare efficacia alle nostre parole e azioni. Il fate con cui aiutiamo gli altri deve scaturire sempre dal nostro personale fiat in adesione a Dio.

 

Da “ecco concepirai un figlio” a “ecco tuo figlio

Maria è Madre di Dio. È l’unica in tutto l’universo e in tutta la storia umana a poter dire, rivolta a Gesù, ciò che gli dice il Padre celeste: “Tu sei mio Figlio; io ti ho generato!” (Sal 2,7; Eb 1,5). Maria, la Madre di Dio, è l’epifania di uno dei misteri, dei paradossi più alti del cristianesimo, delle sorprese d’amore più sconcertanti di Dio fatte all’umanità. Ma l’essere madre per Maria non è una realtà statica che si acquista una volta per sempre. Lungo la sua “peregrinazione della fede” ella ha fatto un cammino di crescita e di maturazione nella sua maternità vivendo tutta una gamma di sentimenti materni:

c’è l’attesa silenziosa nel contemplare il lento dipanarsi del segreto dentro di sé,

la gioia intima alla nascita e l’amore di tenerezza verso il figlio neonato,

la soddisfazione e la fierezza nel presentarlo ai pastori e ai magi,

c’è il dolore della fuga e dell’esilio per proteggere e salvare la vita di colui che è la Vita del mondo;

c’è la dolcezza d’intimità negli anni di Nazaret;

c’è poi l’esperienza difficile e sconcertante dello smarrimento di Gesù dodicenne nel tempio;

anche nel corso della vita pubblica di Gesù l’unione della madre con il figlio continua a svilupparsi e ad approfondirsi;

con sobrietà e discrezione Maria è presente non come una madre gelosamente ripiegata sul proprio Figlio divino, ma come donna che con la sua azione favorì la fede della comunità apostolica in Cristo e la cui funzione materna si dilatò, assumendo sul Calvario dimensioni universali.

L’avanzare nella peregrinazione della fede è per Maria contemporaneamente un avanzare nello sviluppo della sua maternità. Come la peregrinazione della fede culmina nell’evento pasquale del Figlio, così anche il cammino di maternità.

 

A Nazaret Maria iniziava il suo cammino di maternità accettando il progetto misterioso di Dio: “Ecco concepirai un Figlio”; ora è questo Figlio che le propone una nuova maternità universale. A Cana, Maria si poneva in mezzo facendo la mediatrice tra il suo Figlio e gli uomini; ora è il suo Figlio che fa da mediatore tra lei e gli uomini dicendole: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Il racconto di Giovanni termina con: “E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” (Gv 19,27). Da quel momento, mentre l’umanità redenta accoglie la Madre, Maria accoglie ogni figlio che le è affidato personalmente dal suo Figlio e lo introduce nel suo cuore materno, per sempre. È così anche per noi: tutto parte dall’accoglienza di un progetto di Dio su di noi per scoprire, alla fine, che tale progetto ha a che fare con il prenderci cura di fratelli e sorelle a noi affidati dal Signore Gesù.

 

 

PREGHIERE A MARIA

 

 

MEMORARE (attribuita a san Bernardo)                                            

Ricordati, o piissima Vergine Maria, che non si è mai inteso al mondo che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto e chiesto il tuo patrocinio, e sia stato da te abbandonato. Animato da una tale confidenza, a te ricorro, o Madre, Vergine delle vergini, a te vengo e, peccatore quale sono, mi prostro ai tuoi piedi per domandare grazie. Non volere, o Madre del Divin Verbo, disprezzare le mie suppliche, ma, benigna, ascoltale ed esaudiscile.

 

 

PREGHIERA A MARIA (San Francesco d’Assisi: FF 281)

Santa Maria Vergine, non vi è alcuna simile a te, nata nel mondo,  fra le donne, figlia e ancella dell'altissimo Re, il Padre celeste, madre del  santissimo Signore nostro Gesù Cristo, sposa dello Spirito Santo; prega per noi  con san Michele arcangelo e con tutte le virtù dei cieli, e con tutti i santi,  presso il tuo santissimo Figlio diletto, nostro Signore e Maestro. Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, come in principio e ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.               


TRA GLI ULIVI DEL GETSEMANI (Mc 14,32-42)

 

La preghiera di Gesù nel Getsemani (Mc 14,32-42) è il momento in cui ci viene svelata la passione interiore di Gesù. Gli altri passi ci dicono che cosa Gesù subisce, che cosa gli fanno, ma che cosa Gesù ha provato ce lo dicono il Getsemani e la sua domanda al Padre sulla croce. Il fatto poi che questa passione interiore la troviamo all'inizio (il Getsemani) e alla fine (la crocifissione) è un modo narrativo, quello dell'inclusione, per dire che ciò che è stato raccontato all'inizio e alla fine c'è stato anche `durante'. Questa passione interiore non è di un momento, non è avvenuta al Getsemani e basta, ma ha accompagnato tutta la passione di Gesù. I vangeli sono sempre molto sobri nel rivelarci il mondo interiore di Gesù. Le poche volte in cui lo fanno meritano molta attenzione: questo è uno di quei momenti.

 

La passione interiore di Gesù - Le parole più ripetute – già questo è indicativo del significato di un brano – sono: vigilare, pregare e dormire. In questi tre verbi c'è già tutto: il Cristo che è vigilante, che prega e i discepoli che dormono. La scena è costruita su un andare e venire di Gesù (va e torna per tre volte) e sulla preghiera di Gesù ripetuta tre volte. E evidente che questo andare e venire dice l'inquietudine: il Gesù del Getsemani è un uomo profondamente inquieto.

 

A parte qualche annotazione che racconta, tutto sta in cinque parole di Gesù: “disse”, “e dice”, “e diceva” e poi ancora due volte “e dice”. Cinque parole di Gesù che in verità sono un monologo. Sembrerebbe a prima vista un dialogo perché Gesù parla ai discepoli, Gesù parla al Padre, ma in realtà i discepoli tacciono e il Padre pure. E una sorta di discorso fatto ad un altro che però tace. E anche questa è una cosa sulla quale riflettere molto.

 

Cinque interventi di Gesù, di cui i primi due e gli ultimi due sono al presente storico — “dice” — per indicare un'azione puntuale, mentre quello in mezzo — “e diceva” — è all'imperfetto per indicare un'azione lunga, ampia e ripetuta. Sembrerebbero delle piccole cose, ma in questi testi anche ciò che è piccolo è grande. Questo testo ci dice che il centro della scena, il punto dove bisogna fermare l'attenzione, è quel che diceva e cioè la preghiera: “Abba, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. Nell'intenzione di chi narra questo è chiaramente il centro.

 

Giunsero a un podere chiamato Getsemani ed egli disse ai suoi discepoli: "Sedetevi qui, mentre io prego". Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”. Questa annotazione di Gesù che si stacca dai discepoli, ma prende con sé tre discepoli, non è una novità nel Vangelo di Marco: per esempio nella scena della Trasfigurazione era già così, oppure nella scena del miracolo della bambina che viene ridata al padre. Sembra quasi una specie di sigla, una sigla narrativa: quando Gesù in qualche modo si separa dai discepoli, ma ne prende con sé alcuni, significa che sta avvenendo una grande rivelazione. Bisognerà scoprire dove sta questa grande rivelazione. Nella scena della Trasfigurazione si è vista subito: quest'uomo è glorioso, è il Figlio di Dio che per un attimo lascia vedere la sua vera statura. Ma qui? E una domanda che lasciamo per un attimo in sospeso.

 

L'angoscia di Gesù - Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni...”. A questo punto inizia la descrizione dell'evangelista dell'angoscia di Gesù: qui la traduzione dice: “Cominciò a sentire paura e angoscia e disse loro: la mia anima è triste“. Intanto il verbo “cominciare” vuol dire che questa paura e questa angoscia non sono una cosa di un minuto. Ma non ci piace molto la traduzione “angoscia”: il testo greco di Marco è molto più forte. Il termine greco ekthambeisthai non è una angoscia qualsiasi, ma indica il momento in cui si è sotto shock, si è impietriti, come quando una cosa, o troppo bella o troppo brutta, capita all'improvviso e se ne rimane paralizzati; poi o si scapperà o si riderà di gioia, ma c'è un momento in cui si è impietriti, fermi. Questo è il verbo che usa Marco per il momento in cui Gesù è di fronte alla sua passione. E la passione non è solo la morte, ma è il fallimento della sua missione, una missione che rimane incompiuta, spezzata. Gesù è come incapace di reagire.

 

Poi c'è un secondo verbo: ademonein, che di per sé vuoi dire “spaesato”. Come se Gesù di fronte al disegno di Dio che è lì davanti si trovasse un po' spaesato. È talmente forte questa descrizione di Marco che Matteo l'ha attenuata: Matteo non ha avuto il coraggio di ripetere ektharnbeísthai (impietrito) e allora dice “triste”.

 

Dunque i sentimenti di Gesù sono molto forti e Marco non li ha attenuati. Siamo di fronte a un “uomo-uomo”. E già si capisce che qui c'è una grande rivelazione, ma una rivelazione capovolta rispetto a quella della Trasfigurazione: là un uomo in cui vedi la gloria di Dio, qui il Figlio di Dio in cui si vede tutto lo spessore dell'umanità. Il Figlio di Dio non è sfuggito a niente di quanto fa parte dell'uomo. Nulla. Ha vissuto persino cosa vuoi dire essere un uomo davanti a Dio. Noi davanti a Dio a volte siamo spaesati. Il Figlio di Dio questa esperienza, che è tipica dell'uomo, l'ha vissuta.

 

Marco è veramente geniale, gli bastano poche parole, senza nessuna retorica. In ogni caso Gesù stesso dice: “La mia anima è tristissima”, triste da morire.

E la tristezza di fronte a un piano di Dio che pare sconvolgere il Suo volto: ma se Dio è così, come mai tutto questo accade?

 

La preghiera di Gesù - Poi Gesù dice: “Rimanete qui e continuate a stare svegli”... e invece i discepoli dormono. “E andato un po' avanti, si prostrava”. E’ un imperfetto: “cadeva sulla terra”... “si prostrava per terra e pregava”. E’ forte anche questa immagine: vedere il Figlio di Dio prostrato per terra come un uomo. Nei Vangeli sono gli altri che si prostrano davanti a Gesù: i lebbrosi che chiedono di essere sanati, gli ammalati che chiedono di essere guariti, ma in quegli episodi Gesù è dalla parte di Dio, qui è dalla parte dell'uomo davanti a Dio. Figura straordinaria!

 

 “E pregava che se fosse possibile passasse da lui (passasse a lato) l'ora”. L'ora è una parola che tutti conoscono: l'ora decisiva. La vita è fatta di tempi, di momenti, di ore, ma ogni tanto accade l'ora decisiva, quella che decide tutto ciò che viene dopo e che in qualche modo mostra se ciò che veniva prima ha fruttato o non ha fruttato. L'ora decisiva, l'ora rivelatrice: come se in quel momento mettessi in gioco tutto. E questa è l'ora del fallimento, per cui sembra che tutto sia sbagliato.

 

 “E Gesù diceva: "Abba, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu". Questa è la preghiera di Gesù, ripetuta. Una preghiera che nella sua forma è classica: c'è l'invocazione del Padre, poi una professione di fede (tutto è possibile a te), poi una domanda (allontana da me questo calice) e poi da ultimo, dopo la domanda, la consegna, l'obbedienza (non ciò che io voglio, ma quello che vuoi tu).

 

La preghiera è classica, ma lo straordinario è che questa preghiera sia detta da Gesù. E poi ci sono delle novità. La preghiera è rivolta al Padre, che però non è chiamato “padre”. Qui è riportato il termine “Abbà” (babbo), un modo infantile di chiamare Padre. Gesù con questo nome tenerissimo lascia trapelare la sua relazione, direi unica, con il Padre.

 

C'è un'altra cosa da sottolineare: proprio nel momento in cui Gesù è angosciato, proprio quando pare non ascoltato dal Padre, proprio nel momento di abbandono, Gesù mantiene la sua tenerezza verso il Padre. Lo chiama “babbo” proprio nel momento dell'abbandono. Quando Gesù poteva avere tante ragioni per annebbiare la sua fiducia nel Padre, dice invece “Abbà”! E su questo punto Gesù è irremovibile: può capitare qualsiasi cosa, ma davanti al Padre è sempre suo Figlio. Anche sulla croce farà una domanda, ma al proprio Dio, dal quale non si stacca.

 

 “Tutto è possibile a te”: è proprio qui che nasce la domanda. Dio è Padre e mi vuole bene, tutto gli è possibile e dunque cambi le cose. La domanda scaturisce da questa duplice condizione: che Dio è buono  e che Dio è onnipotente. Se fosse cattivo, sarebbe inutile pregarlo; se non fosse onnipotente, mi vuole bene ma non potrebbe fare nulla. Invece Gesù qui è convinto di tutte e due le cose: che può fare tutto e che è Padre. Chi ha il diritto di scandalizzarsi dell'ingiustizia del mondo sono solo i credenti, l'ateo non ha il diritto di scandalizzarsi perché il mondo viene dal caos, dal nulla e c'è da meravigliarsi che qualche cosa vada bene... Invece il credente crede in un Dio buono e onnipotente.

 

Credo di vedere qui alcune cose: Gesù è colui che ha vissuto, quasi come in una sorta di gigantografia, questa domanda dell'uomo: fino a quando? È la domanda spontanea di ogni uomo, di ogni preghiera e anche della preghiera del Figlio: “Siccome sei padre, siccome sei onnipotente...”. La preghiera di Gesù non è solo una consegna al Padre. La consegna non è la prima cosa. La prima cosa è la domanda. Sarebbe stato tutto diverso se Gesù avesse detto: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, sia fatta la tua volontà”! Quando si dice troppo in fretta “sia fatta la tua volontà” si ha sempre l'impressione di qualcosa che non va. Mi ricordo di un rabbino che insegnava la preghiera e diceva ai suoi alunni: “Quando pregate — e nella vita dovete fare sempre la volontà del Padre — e però non siete d'accordo, avete diritto prima di esprimere il vostro dissenso”.

 

Questo Gesù Cristo è un po' diverso: ma è così vero! Il mondo è pieno di gente che non accetta il discorso che stiamo facendo. Vorrebbe un Dio diverso e invece la bellezza è che il volto di Dio si sia manifestato così: condividendo fino in fondo la nostra condizione, h nostro essere davanti a Dio e quindi anche la nostra paura. I testi sono molto chiari! Abbiamo già detto che Marco ha usato un termine piuttosto forte; ma nella Lettera agli Ebrei si dice che Gesù nella sua vita mortale ha “singhiozzato”, non che ha “pianto di nascosto”, e la lettera agli Ebrei è uno degli scritti che nel Nuovo Testamento esalta la grandezza di Cristo. Ma essa non sta nell'evitare l'esperienza umana, bensì nel viverla. Questo è il volto del Dio cristiano che afferma la sua grandezza non distanziandosi, ma entrando nell'esistenza dell'uomo. La novità cristiana è tutta qui.


IL MISTERO PASQUALE DI GESU’:

 

LA PASSIONE E LA RISURREZIONE

 

 

Può sorprendere l'ampio spazio dato dagli evangelisti ai racconti della passione e, viceversa, lo spazio molto più ristretto, meno ordinato, frutto di tradizioni che sembrano fra loro slegate, dato ai racconti della Risurrezione. La Risurrezione non avrebbe dovuto polarizzare tutta l'attenzione dei cristiani, ponendo in ombra la Croce, quasi un fatto increscioso da dimenticare, o - comunque - una fase di passaggio superata dalla risurrezione? E invece no. La Risurrezione non ha fatto dimenticare la passione, al contrario ne ha svelato il senso e l'importanza.

 

Generalmente si spiega la Croce a partire dalla risurrezione, e questo è giusto. Ma il movimento contrario non è meno importante, come si è visto ripetutamente nella nostra lettura dei racconti. Il fatto è che la Croce non è semplicemente l'icona di un martire che rimane fedele a Dio sino a dare la vita per Lui, ma è l'icona di un martire con un volto preciso: il volto di Gesù di Nazareth, appunto. Cioè di un uomo che ha predicato un Dio “diverso” e ha creduto di onorarlo con una prassi di vita “diversa”: questa diversità è stata la ragione della sua condanna a morte, ma Lui ha sostenuto che era, al contrario, la trascrizione più fedele del volto di Dio e della sua volontà. La risurrezione è la prova che in quella diversità Dio si è riconosciuto. La risurrezione non ha mutato quella diversità: ne ha mostrato la verità.

 

Il Crocifisso è un uomo che ha sostenuto di avere un rapporto filiale con il Padre, un rapporto diverso da quello di ogni altro uomo. La risurrezione è il segno che questa pretesa era vera.

 

La Croce dice il volto nuovo del Dio rivelato da Gesù, e la risurrezione dice che Dio in quel volto si è riconosciuto pienamente.

 

La risurrezione è un miracolo diverso da tutti gli altri, al punto che il termine miracolo non sembra molto adatto a descriverla. Diverso non solo perché più grandioso e più sorprendente, ma perché nuovo per la sua qualità. A differenza di tutti gli altri è, infatti, un miracolo definitivo. L'evento della risurrezione travalica il mondo presente, mentre gli altri miracoli restano totalmente circoscritti alla condizione presente. La risurrezione parte dal mondo presente, constatatile dalla nostra esperienza (Gesù morto e posto nel sepolcro), ma termina nel mondo nuovo, al di là di ciò che è per noi verificabile.

 

Dal momento che la risurrezione è un evento speciale, anche la sua rilevanza storica non potrà che essere speciale. Non è verificabile come invece lo sono gli altri fatti. Questo però non significa che sia un evento meno reale. Al contrario, è un evento realissimo, accaduto, obiettivo. Semplicemente non è “tutto” verificabile con gli strumenti storici in nostro possesso, perché è un evento che trascende il nostro mondo verificabile: Gesù è entrato nel mondo di Dio, questa è la verità della sua risurrezione, molto diversa dalla risurrezione di Lazzaro, che non è uscito dal nostro mondo, ma vi è ritornato.

 

 

Tuttavia anche la risurrezione resta pur sempre un evento che può - e deve - lasciare delle “tracce” storicamente verificabili.

 

La prima di queste tracce è la fede dei discepoli e la nascita della Chiesa. E’ un dato a cui si deve prestare molta attenzione. Come è nata questa fede? I testi parlano di due segni: il sepolcro vuoto e le apparizioni. E’ la spiegazione storicamente più accettabile. Solo qualcosa di insolito e di convincente può indurre a ritenere risorto un crocifisso!

 

Del resto, tutte le testimonianze in nostro possesso ci dicono che i discepoli non erano dei visionari. Il loro movimento era rovesciato rispetto a quello dei visionari. Questi dapprima sono certi e poi, sotto la spinta della ragione o di altro, giungono al dubbio. I discepoli, invece, partirono dal dubbio e non senza resistenze approdarono alla certezza. Questo è il cammino di uomini sanamente critici, non di uomini visionari. Non mancano storici ed esegeti che ritengono di trovare nella documentazione neotestamentaria le tracce di una evoluzione, che va da una concezione “spiritualista” a una concezione “corporea” della risurrezione. Ma si tratta di una lettura prevenuta. Semmai sarebbe più comprensibile il contrario, e cioè una evoluzione da una concezione corporea (familiare all'antropologia unitaria della cultura ebraica) a una concezione spiritualista (familiare all'antropologia dei greci).

 

Non resta, a questo punto, che accingerci a una verifica personale, stratificando i testi e leggendoli nel modo più obiettivo possibile. Gli strati identificabili sono almeno tre: la primitiva predicazione apostolica ai giudei e ai pagani (Atti 2,22-23; 3,12-26; 4,8-12; 5,32-39; 10,34-46; 13,24-41); le professioni di fede (per esempio 1Cor 15,3-5), le professioni battesimali (Rm 10,9), le tracce di preghiere liturgiche (Ef 5,14b; Fi12,6-11; 1Tm 3,16b); i racconti evangelici.

 

Un primo sguardo a questa imponente massa di testimonianze mostra la varietà delle forme in cui si è espressa la fede nel Risorto: vi sono formule dottrinali, narrazioni, confessioni, inni. Ciò prova che il messaggio della risurrezione era penetrato in tutti gli strati e in tutte le dimensioni della vita cristiana. La risurrezione è al centro della predicazione apostolica e viene annunciata come elemento essenziale in tutti gli ambienti, sia giudei sia pagani.

 

La relazione con la storia di queste varie forme non è però la medesima. Per esempio le preghiere e gli inni presentano la risurrezione sotto l'aspetto teologico e non insistono sugli aspetti storici e apologetici. Ma questo ovviamente non crea alcun imbarazzo: la preghiera e la liturgia non hanno infatti motivo di insistere sugli aspetti storici e apologetici dell'evento salvifico.

 

I testi sono costanti, sin dall'inizio, nell'esprimere la fede in Cristo “corporalmente” risorto. A titolo di esempio, si rilegga la formula catechetica di 1Cor 15,3-5: la risurrezione di Gesù è ricordata per sostenere la concretezza della nostra risurrezione, una risurrezione che abbraccia l'uomo intero, anche nella sua corporeità. E’ appunto la corporeità della risurrezione il punto nevralgico della polemica fra Paolo e il gruppo di Corinto.

 

In tutti i racconti evangelici sono costanti i due dati fondamentali - il sepolcro vuoto e le apparizioni - che vengono non solo ricordati, ma portati come prove della realtà della risurrezione. Anche su questo nessuna vera evoluzione.

 

Una qualche evoluzione è visibile invece nell'uso apologetico dei dati. Per esempio la constatazione del sepolcro vuoto è ricordata da tutti i vangeli, ma non ha in tutti lo stesso valore: in Marco (16,1-8) sembra assumere un interesse secondario; per Luca (24,1-53) e Giovanni (20,1-29) il fatto è in qualche modo all'origine della fede nel Risorto; in Matteo (28,1-20) costituisce la nota decisiva della risurrezione.

 

La conclusione è che non si scorge alcuna evoluzione nella fede nella risurrezione e nel modo di concepirla. Né c'è evoluzione nel reperimento dei dati. Una qualche evoluzione è invece constatatile nell'uso apologetico e teologico di questi dati. E gli evangelisti si sono sentiti molto liberi nell'appellarsi all'una o all'altra tradizione.


I frati minori cappuccini

ti augurano di avere sempre nel cuore

la luce della fede e

la gioia di sentirti nelle mani del Padre

che trasforma tutte le sofferenze

e la stessa morte

in un passaggio alla Vita.

 

 

F e l i c e   Pa s q u a


IL SACRO E LA VITA

 

L'uomo religioso per entrare in contatto con il divino ritaglia dalla vita — cioè dal mondo profano — gesti, persone, spazi e tempi, li carica di valenza simbolica e li considera il luogo privilegiato dell'incontro con il divino. Si determina così l'ambito del sacro, che troviamo pressoché in tutte le religioni. Il sacro è una struttura essenziale della religiosità, dal momento che l'esperienza umana di Dio è necessariamente mediata, costretta cioè a passare attraverso una realtà che non è Dio, e questa realtà diventa evocatrice del divino, diventa, appunto, sacra, separata dall'uso profano.

 

Il sacro può esporre a un gravissimo pericolo, quello di separare il culto dalla vita, introducendo nel rapporto con Dio una sorta di dualismo: il sacro a Dio, il profano all'uomo. Tuttavia — nonostante questo rischio — il sacro è necessario. Senza spazi sacri, tempi festivi e gesti simbolici mancherebbero all'uomo i `segnali' che Dio è nella vita, che questa vita va oltre le sue sconfitte e che un mondo nuovo è in gestazione. Il sacro, rettamente inteso, non fonda qualcosa di diverso dal profano, dalla vita, ma fonda proprio il senso del profano e della vita.

 

La tradizione biblica dà ampio spazio al sacro. Ma parallelamente a questa cordiale e costante accettazione del sacro, le Scritture vigilano continuamente perché esso non diventi estraneo alla vita. La signoria di Dio abbraccia tutto l'uomo e la vita, questo è il punto fermo.

 

Luogo sacro per eccellenza è il Tempio di Gerusalemme. Ma il Tempio non definisce il perimetro della presenza di Dio. Ebrei e cristiani sanno molto bene che Dio è il Signore della storia e dell'intera creazione. La sua presenza, perciò non è localizzabile in qualche luogo. E il pio israelita sapeva, entrando nel Tempio, di incontrare un Dio interessato a ciò che succede fuori. Il Tempio non è mai stato un luogo sacro chiuso. Il movimento va dalle case al Tempio e dal Tempio alla vita.

 

Accanto al luogo sacro, c'è anche il tempo sacro, ad esempio il sabato. E anche qui c'è il rischio di pensare al sabato come tempo per Dio e i giorni feriali come tempo per l'uomo. Non esiste un tempo per Dio e un tempo per l'uomo. Il tempo è tutto di Dio e dell'uomo. Il  sabato è il giorno in cui l'uomo ricorda il dono della libertà che Dio gli ha fatto. L'uomo non è schiavo del suo lavoro, e perciò nel giorno di sabato lo sospende, per gustare la libertà e per godere dei frutti della sua fatica.

 

Luoghi sacri, tempi sacri e gesti sacri. Fra questi ultimi molto significativo è il rito dell'offerta delle primizie dei campi. Il contadino pone nelle mani del sacerdote al tempio il cesto con le primizie dei frutti del suo campo. Poi pronuncia la professione di fede prescritta. E alla fine il sacerdote ridà il cesto dei frutti al contadino perché a casa ne godano lui, la sua famiglia, i poveri e gli stranieri. Il Signore non tiene per sé i frutti che il contadino gli offre, ma li ridà al contadino perché se ne serva per il sostentamento proprio e del Tempio e dei poveri. I doni di Dio devono diventare una gioia comune: “Gioirai con il levita e con l'immigrato” (Deuteronomio 26, 1-11). E’ facile constatare – a proposito di culto e di sacro – che il cammino dall'Antico al Nuovo Testamento va verso una progressiva ulteriore semplicità. I grandi eventi della vita di Gesù avvengono nello spazio profano della vita e delle sue relazioni. L'annuncio della nascita di Giovanni Battista avviene al Tempio, presso l'altare, durante una cerimonia. Ma l'annuncio ben più importante della nascita di Gesù avviene in una casa, un luogo profano e quotidiano. Così la sua nascita. E così persino la sua agonia e la sua morte, che il racconto di Marco scandisce sulle ore del giorno, che sono anche le ore della liturgia al Tempio: l'ora terza, sesta e nona. E’ ormai chiaro che la vera liturgia si compie sul Calvario, lungo una pubblica strada, non più nel recinto sacro del Tempio. Paolo nella sua lettera ai Romani (12, 1-2) dice qualcosa di molto sorprendente: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, quale culto razionale”. Per Paolo il corpo è l'uomo concreto, nella sua interezza, nelle sue relazioni e nella sua profanità. Culto a Dio è l'esistenza convertita. Tutto questo è vero e va posto al centro. Tuttavia Gesù ha anche frequentato il Tempio e le sinagoghe. Ed è stato sottoposto al rito della circoncisione. E ha ricevuto insieme al popolo peccatore il battesimo di Giovanni. E anche i primi cristiani di Gerusalemme frequentavano assiduamente il Tempio e si radunavano nelle case per ascoltare la parola di Dio, pregare e “spezzare il pane”.

 

Dunque luoghi sacri, tempi e riti esistono ancora e sono necessari. Ma non può trattarsi di gesti separati, che non influiscono sulla vita. Anzi, prendono senso dalla vita. Gesù non ha soltanto vissuto la sua esistenza in obbedienza al Padre e in dono ai fratelli, ma alla fine della sua vita ha raccolto questa sua esistenza esprimendola in gesti simbolici e rituali, come il pane spezzato e il vino distribuito. Gesù consegna questo gesto ai discepoli perché ne facciano memoria, nel rito (“Fate questo in memoria di me”) e nella loro propria esistenza (“Prendete, mangiate”), inseparabilmente.

 

Il discorso potrebbe farsi lungo. Ma una conclusione potrebbe già essere chiara. Il culto cristiano non allontana dal mondo i nostri pensieri. Ma è anche vero che non li dirige semplicemente verso il mondo. Li dirige verso Colui che è il Signore del mondo. Dovremmo respingere un culto che ci distrae dal mondo, e ci rende ad esso indifferenti, incuranti delle relazioni e delle situazioni in cui si è chiamati a vivere. Ma dovremmo anche respingere un impegno nel mondo che distrae da Dio. Cadremmo nell'illusione di essere i padroni del mondo.

 


RENDERE RAGIONE  DELLA SPERANZA

riflessione per l’inizio dell’anno nuovo

 

La prima lettera di Pietro raccomanda ai cristiani, che vivevano in una società per molti aspetti simile alla nostra, di rendere ragione della loro “speranza” (3,10).  Non si parla della fede, ma della speranza, come se questa fosse la nota che contraddistingue il cristiano e per ciò stesso rapporto specifico che il cristiano è chiamato a dare al mondo nel quale vive. Ma la speranza non è sempre facile da vivere, per nessuno, neppure per un cristiano. E ancor meno è facile mostrarla. Non parliamo qui della speranza individuale che sostiene la propria personale esistenza., ma di quella speranza che riguarda il mondo, questo mondo.

 

Da un lato il cristiano è certo che il Signore è già venuto e che la sua morte e la sua risurrezione costituiscono l'evento centrale e risolutore della storia. Dall’altro, però, constata che la storia continua come prima: ancora l’ingiustizia, la sopraffazione, la dimenticanza di Dio, il peccato. Come vivere e mostrare la speranza dentro questa tensione?

 

Racconta un'antica storia ebraica che, un giorno, dei discepoli riferirono al loro vecchio maestro di aver sentito alcuni sostenere che il messia fosse già venuto. Il maestro non rispose, aprì la finestra e guardò sulla strada, poi si girò e scosse il capo. Se il messia fosse davvero venuto, il mondo sarebbe stato necessariamente diverso!

 

A questo problema il vangelo risponde raccontando le parabole del seme. Il discepolo di Gesù è invitato a vivere una feconda tensione, spezzando la quale non comprenderebbe più se stesso né la storia che vive: il compimento e l’attesa, la pienezza del tempo e una storia che è tuttora inconclusa.

 

La grande svolta è avvenuta e Dio è fra noi, ma il suo Regno è deposto nella nostra storia come un seme. Il suo compimento è certo, ne esistono anche i segni, ma non è ancora manifesto.

 

Come esprimere questa tensione, oggi, in concreto? Come leggere gli avvenimenti? Come affrontarli? In una parola: che cosa significa impegnarsi e sperare dentro una società il cui tessuto sembra continuamente lacerarsi, e dentro una storia che sembra vanificare la stessa venuta del Signore?

 

La letteratura neotestamentaria è unanime nel suggerire alcuni atteggiamenti. Il primo è di ricordarsi che ogni avvenimento è sempre come già dicevano i profeti, un giudizio di Dio. Nulla accade senza responsabilità. L’Apocalisse – per fare un esempio – parla di catastrofi, guerre, crolli di istituzioni, di ideologie e di idolatrie. Tutto questo è un giudizio nel senso della punizione. Rifiutando il progetto di Dio, gli uomini immettono nella storia germi disgregatori e ne raccolgono i frutti. Ma è anche un giudizio nel senso della salvezza, perché permette al disegno di Dio di proseguire. Dio spezza il tentativo degli uomini di sbarrare la strada al suo futuro: rimuove l’ostacolo che impedisce al mondo nuovo di affiorare. Così il giudizio è al tempo stesso punizione e salvezza. Paradossalmente, gli stessi giudizi diventano segni di speranza.

 

Di qui il secondo atteggiamento: le denuncie, anche se doverose, non bastano. Il compito del cristiano è di scoprire e indicare i germi di novità. La denuncia, lasciata a se stessa, può suscitare scoraggiamento e rassegnazione. Ciò succede ogni qualvolta la denuncia genera un senso di impotenza anziché di coraggio. La denuncia cristiana si distingue per la sua genialità nel coniugare critica e speranza. Abbiamo, invece, a volte l’impressione di incontrare comunità cristiane divenute esperte, coraggiose, nel denunciare, ma non altrettanto nel suscitare speranza.

 

La speranza cristiana è al tempo stesso “gratuita” e “concreta”. Il cristiano fonda la sua speranza nella memoria del Dio di Gesù Cristo. Dunque non una speranza che nasce esternamente alla propria fede, ma dal di dentro. Una speranza - di conseguenza - non misurata sulla facilità della meta, ma sulla grandezza della propria fede. Il cristiano alimenta la speranza guardando in alto verso Dio, o guardando indietro, verso la croce di Cristo, non guardando in basso, o a lato, verso gli uomini.

 

E tuttavia la speranza ha anche bisogno di concretezza: i segni di speranza. E qui svolge un ruolo importante la comunità cristiana, che è chiamata a farsi segno. Segno è qualcosa di visibile e di convincente, ma anche qualcosa che rinvia. Il segno non ferma lo sguardo su di sé, ma rinvia altrove. Dunque, il coraggio di farsi segno e la pazienza di attendere anche a lungo il compimento. L'importante é ricordarsi che il segno è valido se chiaro, non necessariamente se è grande. Anche piccole comunità possono, perciò, essere segni. Ma si ha l'impressione che oggi molti cristiani subiscono la tentazione del “grande”, dimenticando il “chiaro”.

 

La speranza richiede il coraggio dello sguardo lungimirante, cioè della pazienza che sa sopportare e che non si lascia piegare da nessuna difficoltà. La speranza richiede il coraggio della magnanimità, dell’animo largo. Giacomo scrive ai suoi cristiani in difficoltà: “Siate pazienti, fratelli, e guardate il contadino: attende il frutto prezioso della terra pazientando finché riceve le piogge autunnali e primaverili. Pazientemente anche voi rafforzate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina”. L’uomo paziente è l’uomo che si muove entro ampi orizzonti e sa attendere a lungo, come il contadino. Il contadino inizia dal seme e sa che deve attendere a lungo prima di vedere il premio della propria fatica. Un’attesa lunga, ma anche certa. Una volta gettato nel terreno, il seme cresce sicuramente. Viene in mente la parabola evangelica del seme che cresce da solo, ma il cui frutto è da attendere a lungo. L’impazienza rende impossibile la speranza. Gli impazienti non sono mai uomini di speranza. E a inceppare il cammino del rinnovamento - di qualsiasi rinnovamento, dentro la Chiesa come nella società - non sono mai soltanto i cosiddetti conservatori, che tentano di portare il mondo all’indietro, ma anche gli innovatori (se mai sono!) che pretendono di forzare i tempi di maturazione del seme.

 

Ma vogliamo terminare queste poche osservazioni sulla speranza ricordando le forti parole del profeta Isaia: “Alzati, rivestiti di luce... Ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni, ma su di te risplende il Signore... Cammineranno i popoli nella tua luce, i re allo splendore del suo sorgere... Volgi gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te(60, 1-6).

 

Alzati!” è un invito a lasciarsi alle spalle la stanchezza e le lamentele, e “rivestiti di luce” è un invito all’ottimismo. “Volgi lo sguardo attorno e guarda” è un richiamo a uscire dal proprio angusto orizzonte, a rompere il cerchio delle proprie preoccupazioni e a cessare di essere ripiegati su se stessi. Se appena si alza lo sguardo, ci si accorge di un duplice movimento: la luce di Dio che viene verso Gerusalemme e l’intera umanità che si mette in cammino. Due realtà, queste, da guardare, due realtà grandiose, chiarissime, cariche di speranza. Ma se non si alza lo sguardo - se non ci si scuote, se non si esce da se stessi - si corre il rischio di non vederle.


IL SACRO E LA VITA

 

L'uomo religioso per entrare in contatto con il divino ritaglia dalla vita — cioè dal mondo profano — gesti, persone, spazi e tempi, li carica di valenza simbolica e li considera il luogo privilegiato dell'incontro con il divino. Si determina così l'ambito del sacro, che troviamo pressoché in tutte le religioni. Il sacro è una struttura essenziale della religiosità, dal momento che l'esperienza umana di Dio è necessariamente mediata, costretta cioè a passare attraverso una realtà che non è Dio, e questa realtà diventa evocatrice del divino, diventa, appunto, sacra, separata dall'uso profano.

 

Il sacro può esporre a un gravissimo pericolo, quello di separare il culto dalla vita, introducendo nel rapporto con Dio una sorta di dualismo: il sacro a Dio, il profano all'uomo. Tuttavia — nonostante questo rischio — il sacro è necessario. Senza spazi sacri, tempi festivi e gesti simbolici mancherebbero all'uomo i `segnali' che Dio è nella vita, che questa vita va oltre le sue sconfitte e che un mondo nuovo è in gestazione. Il sacro, rettamente inteso, non fonda qualcosa di diverso dal profano, dalla vita, ma fonda proprio il senso del profano e della vita.

 

La tradizione biblica dà ampio spazio al sacro. Ma parallelamente a questa cordiale e costante accettazione del sacro, le Scritture vigilano continuamente perché esso non diventi estraneo alla vita. La signoria di Dio abbraccia tutto l'uomo e la vita, questo è il punto fermo.

 

Luogo sacro per eccellenza è il Tempio di Gerusalemme. Ma il Tempio non definisce il perimetro della presenza di Dio. Ebrei e cristiani sanno molto bene che Dio è il Signore della storia e dell'intera creazione. La sua presenza, perciò non è localizzabile in qualche luogo. E il pio israelita sapeva, entrando nel Tempio, di incontrare un Dio interessato a ciò che succede fuori. Il Tempio non è mai stato un luogo sacro chiuso. Il movimento va dalle case al Tempio e dal Tempio alla vita.

 

Accanto al luogo sacro, c'è anche il tempo sacro, ad esempio il sabato. E anche qui c'è il rischio di pensare al sabato come tempo per Dio e i giorni feriali come tempo per l'uomo. Non esiste un tempo per Dio e un tempo per l'uomo. Il tempo è tutto di Dio e dell'uomo. Il  sabato è il giorno in cui l'uomo ricorda il dono della libertà che Dio gli ha fatto. L'uomo non è schiavo del suo lavoro, e perciò nel giorno di sabato lo sospende, per gustare la libertà e per godere dei frutti della sua fatica.

 

Luoghi sacri, tempi sacri e gesti sacri. Fra questi ultimi molto significativo è il rito dell'offerta delle primizie dei campi. Il contadino pone nelle mani del sacerdote al tempio il cesto con le primizie dei frutti del suo campo. Poi pronuncia la professione di fede prescritta. E alla fine il sacerdote ridà il cesto dei frutti al contadino perché a casa ne godano lui, la sua famiglia, i poveri e gli stranieri. Il Signore non tiene per sé i frutti che il contadino gli offre, ma li ridà al contadino perché se ne serva per il sostentamento proprio e del Tempio e dei poveri. I doni di Dio devono diventare una gioia comune: “Gioirai con il levita e con l'immigrato” (Deuteronomio 26, 1-11). E’ facile constatare – a proposito di culto e di sacro – che il cammino dall'Antico al Nuovo Testamento va verso una progressiva ulteriore semplicità. I grandi eventi della vita di Gesù avvengono nello spazio profano della vita e delle sue relazioni. L'annuncio della nascita di Giovanni Battista avviene al Tempio, presso l'altare, durante una cerimonia. Ma l'annuncio ben più importante della nascita di Gesù avviene in una casa, un luogo profano e quotidiano. Così la sua nascita. E così persino la sua agonia e la sua morte, che il racconto di Marco scandisce sulle ore del giorno, che sono anche le ore della liturgia al Tempio: l'ora terza, sesta e nona. E’ ormai chiaro che la vera liturgia si compie sul Calvario, lungo una pubblica strada, non più nel recinto sacro del Tempio. Paolo nella sua lettera ai Romani (12, 1-2) dice qualcosa di molto sorprendente: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, quale culto razionale”. Per Paolo il corpo è l'uomo concreto, nella sua interezza, nelle sue relazioni e nella sua profanità. Culto a Dio è l'esistenza convertita. Tutto questo è vero e va posto al centro. Tuttavia Gesù ha anche frequentato il Tempio e le sinagoghe. Ed è stato sottoposto al rito della circoncisione. E ha ricevuto insieme al popolo peccatore il battesimo di Giovanni. E anche i primi cristiani di Gerusalemme frequentavano assiduamente il Tempio e si radunavano nelle case per ascoltare la parola di Dio, pregare e “spezzare il pane”.

 

Dunque luoghi sacri, tempi e riti esistono ancora e sono necessari. Ma non può trattarsi di gesti separati, che non influiscono sulla vita. Anzi, prendono senso dalla vita. Gesù non ha soltanto vissuto la sua esistenza in obbedienza al Padre e in dono ai fratelli, ma alla fine della sua vita ha raccolto questa sua esistenza esprimendola in gesti simbolici e rituali, come il pane spezzato e il vino distribuito. Gesù consegna questo gesto ai discepoli perché ne facciano memoria, nel rito (“Fate questo in memoria di me”) e nella loro propria esistenza (“Prendete, mangiate”), inseparabilmente.

 

Il discorso potrebbe farsi lungo. Ma una conclusione potrebbe già essere chiara. Il culto cristiano non allontana dal mondo i nostri pensieri. Ma è anche vero che non li dirige semplicemente verso il mondo. Li dirige verso Colui che è il Signore del mondo. Dovremmo respingere un culto che ci distrae dal mondo, e ci rende ad esso indifferenti, incuranti delle relazioni e delle situazioni in cui si è chiamati a vivere. Ma dovremmo anche respingere un impegno nel mondo che distrae da Dio. Cadremmo nell'illusione di essere i padroni del mondo.


 preghiere di Natale

 

1) Vieni di notte, ma nel nostro cuore è sempre notte:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni in silenzio, noi non sappiamo più cosa dirci:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni in solitudine, ma ognuno di noi è sempre più solo:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni, Figlio della pace, noi ignoriamo cosa sia la pace:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni a liberarci, noi siamo sempre più schiavi:

E dunque vieni sempre, Signore.

Vieni a consolarci, noi siamo sempre più tristi:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti,:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni, tu che ci ami: nessuno è in comunione col fratello

se prima non è con te, o Signore.

Noi siamo tutti lontani, smarriti, né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo. Vieni, Signore. Vieni sempre, Signore.

 

2) Sono nato nudo, dice Dio, perché tu sappia spogliarti di te stesso.

Sono nato povero, perché tu possa soccorrere chi è povero.

Sono nato debole, dice Dio, perché tu non abbia mai paura di me.

Sono nato per amore perché tu non dubiti mai del mio amore.

Sono una persona, dice Dio, perché tu non abbia mai a vergognarti di essere te stesso.

Sono nato perseguitato perché tu sappia accettare le difficoltà.

Sono nato nella semplicità perché tu smetta di essere complicato.

Sono nato nella tua vita, dice Dio, per portare tutti alla casa del Padre.

 

 

TEMPO DI NATALE

 

24 dicembre 2012: ore 18,00 Eucaristia della Vigilia

                                 ore 23,15 veglia di Natale

                                 ore 24,00 Eucaristia nella Notte

 

25 dicembre: Natale del Signore

                          Messe alle 7,30;  9,00;  10,30;  12,00; 18,00

  [È sospesa la benedizione eucaristica]

 

26 dicembre: santo Stefano martire

  Sante Messe alle 7,30;  9,00;  10,30;  18,00

                         [è sospesa la Messa delle ore 12,00]

 

+ 30 dicembre: festa della santa Famiglia di Nazareth

 

31 dicembre: alle ore 18 celebrazione Eucaristica e

            canto di ringraziamento per l’anno trascorso  (Te Deum)

 

1 gennaio: Maria SS.ma Madre di Dio.

       Giornata della pace: “Beati gli operatori di pace

 

6 gennaio: Epifania del Signore

 

13 gennaio: Battesimo di Gesù

 

 

Oggi è nato per noi

un Salvatore, Cristo Signore

PREGHIERA PER L’AVVENTO: Vieni, Signore Gesù!

 

Lieti aspettiamo la tua venuta: vieni, Signore Gesù.

Tu che esisti da prima dei tempi,

hai voluto farti uomo come noi.

 

Attendiamo che ti riveli nella tua gloria,

Gesù Salvatore, conservaci irreprensibili

per il giorno della tua venuta.

 

Tu volesti raccogliere tutti gli uomini

nel tuo unico regno:

vieni e raduna quelli che aspettano di contemplare il tuo volto.

Noi speriamo in te, Signore Gesù.

Al tuo nome e al tuo ricordo si volge il nostro desiderio.

 

Donaci un cuore libero e lieto

per venire incontro a te con le lampade accese,

così che tornando e bussando alla nostra porta

tu ci possa trovare vigilanti nella preghiera

ed esultanti nella lode.

 

Affrettati, non tardare, Signore Gesù:

la tua venuta doni conforto e speranza

a coloro che confidano nel tuo amore misericordioso.

 

Fa che per la debolezza della nostra fede

non ci stanchiamo di attendere

la tua consolante presenza.

Amen

TEMPO DI AVVENTO: “OASI DELLA PAROLA

 

Tutti i  lunedì di avvento ci ritroviamo nel coro dei frati dalle ore 20,45 fino alle 21,45. È un momento di preghiera comunitaria: adorazione eucaristica, ascolto e riflessione personale.

 

- Lunedì        3  dicembre   2012 ore 20,45

- Lunedì        10 dicembre  2012  ore 20,45

- Lunedì        17 dicembre  2012  ore 20,45

 

Andiamo con gioia incontro al Signore!



17 novembre

SANTA ELISABETTA D’UNGHERIA

Udienza generale di Benedetto XVI - Mercoledì, 20 ottobre 2010

 

 Vorrei parlarvi di santa Elisabetta d’Ungheria, chiamata anche Elisabetta di Turingia. Nacque nel 1207. Visse nella Corte ungherese solo i primi quattro anni della sua infanzia, assieme a una sorella e tre fratelli. Amava il gioco, la musica e la danza; recitava con fedeltà le sue preghiere e mostrava già particolare attenzione verso i poveri, che aiutava con una buona parola o con un gesto affettuoso.

 

La sua fanciullezza felice fu bruscamente interrotta quando, dalla lontana Turingia, giunsero dei cavalieri per portarla nella sua nuova sede in Germania centrale. Secondo i costumi di quel tempo, infatti, suo padre aveva stabilito che Elisabetta diventasse principessa di Turingia. Il conte di quella regione era uno dei sovrani più ricchi ed influenti d’Europa all’inizio del XIII secolo, e il suo castello era centro di magnificenza e di cultura. Ma dietro le feste e l’apparente gloria si nascondevano le ambizioni dei principi feudali, spesso in guerra tra di loro e in conflitto con le autorità reali ed imperiali. In questo contesto, il conte Hermann accolse ben volentieri il fidanzamento tra suo figlio Ludovico e la principessa ungherese.

 

Elisabetta partì dalla sua patria con una ricca dote e un grande seguito, comprese le sue ancelle personali, due delle quali le rimarranno amiche fedeli fino alla fine. Sono loro che ci hanno lasciato preziose informazioni sull’infanzia e sulla vita della Santa. Dopo un lungo viaggio giunsero ad Eisenach, per salire poi alla fortezza di Wartburg, il massiccio castello sopra la città. Qui si celebrò il fidanzamento tra Ludovico ed Elisabetta. Negli anni successivi, mentre Ludovico imparava il mestiere di cavaliere, Elisabetta e le sue compagne studiavano tedesco, francese, latino, musica, letteratura e ricamo. Nonostante il fatto che il fidanzamento fosse stato deciso per motivi politici, tra i due giovani nacque un amore sincero, animato dalla fede e dal desiderio di compiere la volontà di Dio.

 

All’età di 18 anni, Ludovico, dopo la morte del padre, iniziò a regnare sulla Turingia. Elisabetta divenne però oggetto di sommesse critiche, perché il suo modo di comportarsi non corrispondeva alla vita di corte. Così anche la celebrazione del matrimonio non fu sfarzosa e le spese per il banchetto furono in parte devolute ai poveri. Nella sua profonda sensibilità Elisabetta vedeva le contraddizioni tra la fede professata e la pratica cristiana. Non sopportava i compromessi. Una volta, entrando in chiesa nella festa dell’Assunzione, si tolse la corona, la depose dinanzi alla croce e rimase prostrata al suolo con il viso coperto. Quando la suocera la rimproverò per quel gesto, ella rispose: “Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re Gesù Cristo coronato di spine?”.

 

Come si comportava davanti a Dio, allo stesso modo si comportava verso i sudditi. Tra i Detti delle quattro ancelle troviamo questa testimonianza: “Non consumava cibi se prima non era sicura che provenissero dalle proprietà e dai legittimi beni del marito. Mentre si asteneva dai beni procurati illecitamente, si adoperava anche per dare risarcimento a coloro che avevano subito violenza

Elisabetta praticava assiduamente le opere di misericordia: dava da bere e da mangiare a chi bussava alla sua porta, procurava vestiti, pagava i debiti, si prendeva cura degli infermi e seppelliva i morti. Scendendo dal suo castello, si recava spesso con le sue ancelle nelle case dei poveri, portando pane, carne, farina e altri alimenti. Consegnava i cibi personalmente e controllava con attenzione gli abiti e i giacigli dei poveri. Questo comportamento fu riferito al marito, il quale non solo non ne fu dispiaciuto, ma rispose agli accusatori: “Fin quando non mi vende il castello, ne sono contento!”.

 

In questo contesto si colloca il miracolo del pane trasformato in rose: mentre Elisabetta andava per la strada con il suo grembiule pieno di pane per i poveri, incontrò il marito che le chiese cosa stesse portando. Lei aprì il grembiule e, invece del pane, comparvero magnifiche rose. Questo simbolo di carità è presente molte volte nelle raffigurazioni di santa Elisabetta. Il suo fu un matrimonio profondamente felice: Elisabetta aiutava il coniuge ad elevare le sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose. Sempre più ammirato per la grande fede della sposa, Ludovico, riferendosi alla sua attenzione verso i poveri, le disse: “Cara Elisabetta, è Cristo che hai lavato, cibato e di cui ti sei presa cura”. Una chiara testimonianza di come la fede e l’amore verso Dio e verso il prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione matrimoniale.

 

La giovane coppia trovò appoggio spirituale nei Frati Minori, che, dal 1222, si diffusero in Turingia. Tra di essi Elisabetta scelse prima frate Ruggero come direttore spirituale e poi Corrado di Marburgo. Quando egli le raccontò la vicenda della conversione del giovane e ricco mercante Francesco d’Assisi, Elisabetta si entusiasmò ulteriormente nel suo cammino di vita cristiana. Da quel momento, fu ancora più decisa nel seguire Cristo povero e crocifisso, presente nei poveri. Anche quando nacque il primo figlio, seguito poi da altri due, la nostra Santa non tralasciò mai le sue opere di carità.

 

Una dura prova fu l’addio al marito, a fine giugno del 1227 quando Ludovico IV si associò alla crociata dell’imperatore Federico II, ricordando alla sposa che quella era una tradizione per i sovrani di Turingia. Elisabetta rispose: “Non ti tratterrò. Ho dato tutta me stessa a Dio ed ora devo dare anche te”. La febbre, però, decimò le truppe e Ludovico stesso cadde malato e morì ad Otranto, prima di imbarcarsi, nel settembre 1227, all’età di ventisette anni. Elisabetta, appresa la notizia, ne fu così addolorata che si ritirò in solitudine, ma poi, fortificata dalla preghiera e consolata dalla speranza di rivederlo in Cielo, ricominciò ad interessarsi degli affari del regno.

 

La attendeva, tuttavia, un’altra prova: suo cognato usurpò il governo della Turingia, dichiarandosi vero erede di Ludovico e accusando Elisabetta di essere una pia donna incompetente nel governare. La giovane vedova, con i tre figli, fu cacciata dal castello di Wartburg e si mise alla ricerca di un luogo dove rifugiarsi. Solo due delle sue ancelle le rimasero vicino, la accompagnarono e affidarono i tre bambini alle cure degli amici di Ludovico. Peregrinando per i villaggi, Elisabetta lavorava dove veniva accolta, assisteva i malati, filava e cuciva. Durante questo calvario sopportato con grande fede, con pazienza e dedizione a Dio, alcuni parenti, che le erano rimasti fedeli e consideravano illegittimo il governo del cognato, riabilitarono il suo nome. Così Elisabetta, all’inizio del 1228, poté ricevere un reddito appropriato per ritirarsi nel castello di famiglia a Marburgo, dove abitava anche il suo direttore spirituale fra Corrado. Fu lui a riferire al Papa Gregorio IX il seguente fatto: “Il venerdì santo del 1228, poste le mani sull’altare nella cappella della sua città Eisenach, dove aveva accolto i Frati Minori, alla presenza di alcuni frati e familiari, Elisabetta rinunziò alla propria volontà e a tutte le vanità del mondo. Ella voleva rinunziare anche a tutti i possedimenti, ma io la dissuasi per amore dei poveri. Poco dopo costruì un ospedale, raccolse malati e invalidi e servì alla propria mensa i più miserabili e i più derelitti. Avendola io rimproverata su queste cose, Elisabetta rispose che dai poveri riceveva una speciale grazia ed umiltà

 

Possiamo scorgere in quest’affermazione una certa esperienza mistica simile a quella vissuta da san Francesco: il Poverello di Assisi dichiarò, infatti, nel suo testamento, che, servendo i lebbrosi, quello che prima gli era amaro fu tramutato in dolcezza dell’anima e del corpo (Testamentum, 1-3). Elisabetta trascorse gli ultimi tre anni nell’ospedale da lei fondato, servendo i malati, vegliando con i moribondi. Cercava sempre di svolgere i servizi più umili e lavori ripugnanti. Ella divenne quella che potremmo chiamare una donna consacrata in mezzo al mondo e formò, con altre sue amiche, vestite in abiti grigi, una comunità religiosa. Non a caso è patrona del Terzo Ordine Regolare di San Francesco e dell’Ordine Francescano Secolare.

 

Nel novembre del 1231 fu colpita da forti febbri. Quando la notizia della sua malattia si propagò, moltissima gente accorse a vederla. Dopo una decina di giorni, chiese che le porte fossero chiuse, per rimanere da sola con Dio. Nella notte del 17 novembre si addormentò dolcemente nel Signore. Le testimonianze sulla sua santità furono tante e tali che, solo quattro anni più tardi, il Papa Gregorio IX la proclamò Santa e, nello stesso anno, fu consacrata la bella chiesa costruita in suo onore a Marburgo.

 

Cari fratelli e sorelle, nella figura di santa Elisabetta vediamo come la fede, l'amicizia con Cristo creino il senso della giustizia, dell'uguaglianza di tutti, dei diritti degli altri e creino l'amore, la carità. E da questa carità nasce anche la speranza, la certezza che siamo amati da Cristo e che l'amore di Cristo ci aspetta e così ci rende capaci di imitare Cristo e di vedere Cristo negli altri. Santa Elisabetta ci invita a riscoprire Cristo, ad amarLo, ad avere la fede e così trovare la vera giustizia e l'amore, come pure la gioia che un giorno saremo immersi nell'amore divino, nella gioia dell'eternità con Dio. Grazie. 


4 OTTOBRE

Solennità di san Francesco d’Assisi

 

 La scoperta, o “rivelazione” della via del Vangelo.

 

Nelle biografie di Francesco d’Assisi troviamo due tradizioni che raccontano un momento significativo agli inizi della sua vicenda e dei suoi fratelli.

 

Da una parte sta la prima biografia di Francesco, la Vita beati Francisci di Tommaso da Celano, che al termine del periodo di ricerca solitaria di Francesco pone l’ascolto del Vangelo alla Porziuncola. All’annuncio del discorso dell’invio in missione dei dodici, Francesco “sente” che quella parola è rivolta a lui e reagisce dicendo: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore»; si affretta a cambiare il proprio abito, lasciando i calzari, il bastone e la cintura, cingendosi di una corda, per eseguire il vangelo ascoltato (1Cel 22: FF 356-357).

 

Accanto a questo resoconto, troviamo la tradizione che fa capo all’Anonimo Perugino (AnPer 10-11: FF 1497), poi ripresa dai Tre Compagni e da Tommaso da Celano nella sua seconda biografia, che racconta dei primi compagni che, volendosi unire a Francesco, gli domandano che cosa fare; si recano in chiesa, aprono tre volte il vangelo e ne ricevono la risposta e l’indicazione di vita. Questo racconto riecheggia anche il Testamento, dove Francesco dice che «quando il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava cosa dovessi fare, ma l’Altissimo stesso mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo» (Test 14: FF 116). 

 

Entrambe le tradizioni concordano su un dato fondamentale: agli inizi della vicenda personale e comunitaria di Francesco sta il Vangelo. Viene qui affermata l’assoluta centralità del Vangelo. La scoperta di Francesco e dei primi compagni non è altro che un ritorno al Vangelo, inteso come la voce di Cristo. Ai compagni che gli chiedono cosa fare, Francesco risponde: «Andiamo a chiedere consiglio al Signore», perché nel Vangelo è Lui che parla, oggi, per me.

 

Questa è una convinzione costante di Francesco, che emerge in maniera chiarissima dagli Scritti, dove l’espressione «come dice il Signore nel Vangelo» è un ritornello, che ritorna a giustificare e a fondare le affermazioni di Francesco.

 

La parola che Francesco ascolta nel Vangelo corrisponde alla sua ricerca e aspirazione più profonda: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!». Queste parole esprimono una corrispondenza profonda tra una ricerca e un annuncio, tra una sete profonda e un’acqua viva.

 

Emerge un cuore che è creato come “uditore della parola”, e che nell’ascolto di quella parola riconosce la propria verità più profonda. La inaspettata novità di quel vangelo, ascoltato come se fosse la prima volta che quella parola viene proclamata, si coniuga con una attesa profonda, che abita nel centro del cuore, e l’incontro tra quella parola e quell’attesa rivela a me stesso la mia verità. Tutto si illumina, colgo una corrispondenza profonda, e posso dire in piena verità «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!».

 

Così avvenne per Francesco, otto secoli fa, così avviene, almeno un poco, anche per ognuno di noi: al fondamento della nostra fede, come di quella di Francesco, sta il nostro incontro con il Vangelo.

 

 

PREGHIAMO:

 

Padre Santo, artefice della santità di Francesco, che sempre operi e con il povero fango delle nostre esistenze vuoi plasmare nuovi capolavori, con il tuo Fuoco purificaci, illuminaci e accendici, perché possiamo seguire le orme del Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e così giungere a Te, che vivi e regni glorioso nei secoli dei secoli. Amen.

(cf. Giovanni Paolo II)

 

O fratello nostro, santo Francesco,

uomo vero, uomo forgiato dallo Spirito Santo,

noi ti ammiriamo e ti vogliamo bene.

Guardiamo a te, per imparare ad amare Gesù Cristo.

Guidaci a Lui. Prendici per mano e guidaci sui suoi passi.

(Giovanni Paolo II)

 

O padre nostro Francesco, ricordati di noi tuoi figli, che solo da lontano seguiamo le tue orme. Donaci il coraggio di sostare ogni giorno davanti al Signore per trovarvi il senso pieno per la nostra vita; donaci il coraggio di fondare ogni nostra scelta in Lui; donaci di non temere di essere sale, luce e lievito a servizio dei fratelli. Ottieni che sia effuso su di noi lo spirito di grazia e di preghiera, perché abbiamo la vera umiltà che tu hai avuto, osserviamo la povertà che tu hai seguito, meritiamo quella carità con cui tu hai sempre amato Cristo crocifisso. Egli vive e regna col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli.                              (cfr FF 820)

 

 

 

PREPARAZIONE

ALLA SOLENNITA’ DI  SAN FRANCESCO

 

 

1 -2 -3 ottobre

 

 

ore 17,30: rosario “francescano”

ore 18,00: celebrazione eucaristica con riflessione

 

3 ottobre

 

ore 20,45: celebrazione del Transito di san Francesco

 

4 ottobre

 

ore 18,00: celebrazione dell’Eucaristia presieduta dal Ministro Provinciale e rinnovo della Professione religiosa di fra Ferruccio nel cinquantesimo della sua prima professione religiosa (4 ottobre 1962) e di fra Piermarino e fra Cesare nel venticinquesimo della loro prima professione (13 settembre 1987).

 

5 ottobre

 

ore 18,00: celebrazione Eucaristica presieduta dal card. Angelo Scola  per volontari, benefattori e amici di Opera san Francesco (OSF)

 

7 ottobre

 

ore 18,00: celebrazione in onore di san Francesco


23 settembre


SAN PIO DA PIETRELCINA

 

Desiderio di santità

 

Dagli Scritti di padre Pio da Pietrelcina ( lettera del 18 gennaio 1918: Epistolario vol. IV, pag.439 ss)

 

Miei carissimi figlioli, la grazia del divino Spirito informi sempre i vostri cuori sino alla completa trasformazione nella celeste carità!

 

Vengo con questo voto ardessimo, che assiduamente vado ripetendo innanzi a Gesù per voi, a salutare le anime vostre. Io non cesso mai di pregare il nostro buon Dio, acciochè a lui piaccia di compiere in voi la sua santa opera, il buon desiderio e disegno, cioè arrivare alla perfezione della vita cristiana e francescana: desiderio che voi dovete amare e nutrire teneramente nei vostri cuori, come un’opera dello Spirito Santo ed una scintilla del suo fuoco divino.

 

Ricordate quando nel maggio scorso fui a Roma (padre Pio partì da san Giovanni Rotondo per recarsi a Roma il 14 maggio 1917 e vi ritornò il giorno 23 dello stesso mese)? Qui vidi un albero, che dicesi essere stato piantato dal patriarca san Domenico. Ognuno per devozione lo va a vedere, lo accarezza per amore di chi lo piantò. Avendo io veduto l’albero del desiderio della santità, che Dio stesso ha piantato nelle anime vostre, l’amo teneramente e sento piacere a considerarlo più adesso  che quando eravate qui; quindi vi esorto a fare lo stesso, e a dire insieme con me: Dio vi faccia crescere, o bell’albero piantato, divina semenza; voglia Dio farvi produrre il vostro frutto a maturità, e quando l’avrete prodotto, piaccia a Dio di preservarvi dal vento molesto, il quale fa cadere i frutti interi, che le bestie indiscrete vanno a divorare.

 

Miei carissimi figlioli, questo desiderio deve essere in voi come gli aranci della riviera di Genova, i             quali, secondo ciò che narrano coloro che  l’hanno osservati, sono quasi tutto l’anno carichi di frutta, di fiori e di foglie. I vostri desideri devono sempre fruttificare, in tutte le occasioni che vi si presentano, attuandone qualche parte ogni giorno. Nondimeno non devono mai cessare dal desiderare gli oggetti e gli incontri per passare oltre. Questi desideri sono i fiori dell’albero dei vostri intenti. Le foglie saranno le frequenti ricognizioni  delle vostre debolezze, le quali conservano e le buone opere ed i buoni desideri […].

 

Figlioli, vi dico, con sant’Ambrogio, è tanto necessario a chi vuol perfezionarsi nello spirito aprire tutto il suo cuore e manifestare le proprie infermità ed inclinazioni alla propria guida, quanto è necessario a chi è ferito il medicamento. Di fatto, come potrà un medico sanare una piaga, una ferità che voi non volte manifestargli? E come potrà la giuda, che è medico dell’anima nostra, sanarci da quei mancamenti in cui cadiamo, se noi non glieli palesiamo? Come potrà liberarci da quelle passioncelle che ci predominano, se noi gliele nascondiamo? Come potrà difenderci da quelle tentazioni con cui i demonio ci assale, ci urta, ci spinge per farci precipitare, se noi non gliele manifestiamo? Che debolezza è la nostra, concludo con sant’Agostino, vergognarci di dir ciò che non ci siamo vergognati di fare.

 

Preghiera del beato Giovanni Paolo II

a San Pio da Pietrelcina

 

Insegna anche a noi, ti preghiamo, l’umiltà del cuore per essere annoverati tra i piccoli del Vangelo ai quali il Padre ha promesso di rivelare il misteri del suo Regno.

Ottienici uno sguardo di fede capace di riconoscere prontamente nei poveri e nei sofferenti Il volto stesso di Gesù.

Sostienici nell’ora del combattimento e della prova e, se cadiamo, fa che sperimentiamo la gioia del sacramento del perdono.

Trasmettici la tenera devozione Verso Maria, madre di Gesù e nostra.

Accompagnaci nel pellegrinaggio terreno Verso la Patria beata, dove speriamo di giungere anche noi per contemplare in eterno la Gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

 

 

Preghiera di Angelo Card. Comastri

al San Padre Pio da Pietrelcina

 

Padre Pio, tu sei vissuto nel secolo dell'orgoglio:

e sei stato umile.

Padre Pio, tu sei passato tra noi nell'epoca delle ricchezze

sognate, giocate e adorate: e sei rimasto povero.

Padre Pio, accanto a te nessuno sentiva la Voce:

e tu parlavi con Dio;  

vicino a te nessuno vedeva la Luce: e tu vedevi Dio.

Padre Pio, mentre noi correvamo affannati,

tu restavi in ginocchio

e vedevi l' Amore di Dio inchiodato ad un Legno,

ferito nelle mani, nei piedi e nel cuore: per sempre!

 

Padre Pio,

aiutaci a piangere davanti alla Croce,

aiutaci a credere davanti all'Amore,

aiutaci a sentire la Messa come pianto di Dio,

aiutaci a cercare il perdono come abbraccio di pace,

aiutaci ad essere cristiani con le ferite

che versano sangue di carità fedele e silenziosa:

come le ferite di Dio! Amen.

 

 

Preghiera di Mons. Vincenzo D'Addario

a San Pio da Pietrelcina

 

O Dio, che a san Pio da Pietrelcina,

sacerdote cappuccino,

hai dato l’insigne privilegio

di partecipare, in modo mirabile,

alla passione del tuo Figlio,

concedimi, per sua intercessione,

la grazia ...       che ardentemente desidero;

e soprattutto donami di essere conforme alla morte di Gesù

per giungere poi alla gloria della risurrezione.

Gloria al Padre …

 


LE STIMMATE DI SAN FRANCESCO

17 settembre

 

Nel giorno di grazia in cui ricordiamo le impressioni delle stimmate di san Francesco lasciamoci guidare da un maestro di spirito: san Bonaventura. Che il nostro cuore arda nell’ascoltare la sua lezione magistrale dalla cattedra della Verna, così come ce la trasmette nella sua Leggenda maggiore(= LM).

 

Tenendo presente il racconto della Trasfigurazione del Signore, il Dottore Serafico scrive: “sotto la guida della divina Provvidenza”, Francesco “sale su un monte elevato e solitario chiamato la Verna”. Egli, che si era proposto di salire costantemente verso Dio (cf Legenda maggiore = LM XIII, 1), sale verso il Tabor francescano, la Verna, per incontrarsi con “il Signore santo, Dio unico”, con Colui che Francesco canta, proprio in questo luogo, dopo l’impressione delle Piaghe, come il “bene, tutto il bene, il sommo bene” (Lod 1. 3). Francesco, cercatore instancabile del “grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente e misericordioso Salvatore” (Lod 6), desidera incontrare il Dio che per lui è tutto –“Deus meus et omnia”- ed è per lui che sale al monte, luogo tradizionale dell’abitazione del Signore. Sale, quale nuovo Mosè, non mosso dalla curiosità, quanto con l’unica aspirazione “investigare il beneplacito divino, al quale desiderava conformarsi in tutto” (LM XIII, 1).

 

Francesco ci insegna che per conoscere la volontà del Signore è necessario “salire” e “ricercare”.

La salita, nel vocabolario evangelico e paolino, esige la rinunzia a se stessi, il morire alle opere del peccato esige la crocifissione della carne per vivere una vita secondo lo Spirito (cfr Gal 5, 24). Salire, nel vocabolario francescano, comporta la liberazione da tutto ciò che è superfluo, esige la purificazione e l’itineranza del cuore, comporta dare un nuovo orientamento alla propria esistenza. Salire, in definitiva, esige la conversione, lasciare che la nostra vita sia “toccata dalla mano di Cristo, guidata dalla sua voce e sostenuta dalla sua grazia” (VC 40), perché altrimenti verremmo meno al nostro proposito.

 

Dall’altra parte “ricercare” comporta impegno, dedicazione, abnegazione di se stessi, austerità. In tal modo “salire” e “ricercare” si integrano a vicenda. Non è possibile conoscere la volontà del Signore, e meno ancora seguirla, senza le esigenze che comportano ambedue le attitudini – salire e ricercare – che sono profondamente attive.

 

Francesco sale per stare. Il Poverello sente la necessità di ritirarsi “nel punto più recondito della solitudine, in un posto tranquillo, abbandonando il frastuono delle folle” e in tal modo “affidarsi più liberamente al Signore”. Non è la solitudine per la solitudine, che Francesco cerca. È la solitudine del cuore abitato, del cuore innamorato, la solitudine come condizione per stare con la persona che si ama. Imitando Gesù che si ritirava di frequente in “un luogo appartato” per  entrare in comunione piena con il Padre, anche Francesco ama la solitudine, la cerca, pratica l’appartarsi. Nella solitudine, assorbito completamente nella contemplazione e nell’orazione, Francesco incontra ciò che resta, trova ciò che è vero, scopre l’amarezza inevitabile di ciò che pare dolce e la dolcezza sorprendente di ciò che appare amaro, scopre a chi dire, senza che l’inganno divori le parole: “tu sei tutto per me”: La sapienza, la bellezza, la sicurezza, la gioia, la giustizia, tutta la ricchezza a sufficienza, la dolcezza... (Lod).

Francesco sale per stare e sta per discendere. La sosta sul monte l’aveva trasformato, trasfigurato. D’ora in poi non potrà star solo: “Scende dal monte  l’uomo angelico Francesco, portando con sé l’effige del Crocifisso..., impressa dal dito del Dio vivente nelle membra della sua carne” (LM XIII, 5). Chi si è incontrato con Colui che è tutto non può tacere più. “Attenzione al silenzio della lingua”, però parla la stessa carne. Francesco si sforza di guardare “il segreto reale” del quale è depositario, però è lo stesso Signore che “parla” attraverso il suo corpo, nel quale aveva impresso “quei segni” (cf LM XIII, 5). D’ora in avanti il “maestro” Francesco parlerà più con l’esempio che con la parola.

 

 

PREGHIERA DI PAPA GIOVANNI PAOLO II A LA VERNA (1993)

 

O San Francesco, stigmatizzato de La Verna,

il mondo ha nostalgia di te quale icona di Gesù Crocifisso.

Ha bisogno del tuo cuore aperto verso Dio e verso l'uomo,

dei tuoi piedi scalzi e feriti, delle tue mani trafitte e imploranti.

Ha nostalgia della tua debole voce,

ma forte della potenza del Vangelo.

Aiuta, Francesco, gli uomini d'oggi a riconoscere il male del peccato

a cercarne la purificazione nella penitenza.

Aiutali a liberarsi dalle stesse strutture di peccato,

che opprimono l'odierna società.

Ravviva nella coscienza dei governanti

l'urgenza della pace nelle Nazioni e tra i Popoli.

Trasfondi nei giovani la tua freschezza di vita,

capace di contrastare le insidie delle molteplici culture di morte.

Agli offesi da ogni genere di cattiveria comunica,

Francesco, la gioia di saper perdonare.

A tutti i crocifissi dalla sofferenza, dalla fame e dalla guerra

riapri le porte della speranza. Amen.



 

15 agosto


ASSUNZIONE AL CIELO

DELLA BEATA VERGINE MARIA

 

 

Celebrare l’Assunzione al cielo della Beata Vergine Maria non è, per la Chiesa, una glorificazione enfatica di Maria per alcuni  suoi singolari privilegi, ma è piuttosto un riconoscere in lei l’azione potente del mistero pasquale di Cristo.

 

Al centro della liturgia di questo giorno deve essere posta la contemplazione dell’amore di Dio, che opera in Maria quale primizia e immagine della Chiesa, facendo così risplendere in lei, per il popolo di Dio pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza. Ancora una volta la Chiesa fa sentire la sua voce affermando che soltanto nel mistero della  morte e risurrezione di Cristo si ritrova la forza che dà vita e che opera nella medesima Assunzione della Vergine Maria al cielo: dunque nessuna salvezza “fai da te”, ma esaltazione del dono e della disponibilità a ricevere. Niente di più lontano dalla spiritualità New Age, oggi tanto di moda, con influenze astrali, reincarnazione, benessere del corpo e cura dell’ansia da stress, energie positive, angeli e poteri magici, musica di atmosfera ed altro ancora.

La lettura evangelica della festa propone il brano della Visitazione ed il canto del Magnificat. Alle parole ispirate di Elisabetta, piene di ammirazione per la Madre del Signore, Maria risponde, nel suo Magnificat, spostando l’attenzione dalla propria persona proprio sulla santità e misericordia  di Dio che ha fatto in lei ‘grandi cose’.

 

Nel canto di Maria il soggetto di ogni azione è, infatti, sempre e solo Dio, se si eccettua l’introduzione nella quale la Vergine di Nazareth esprime tutta la propria esultanza e la menzione della proclamazione della sua eterna beatitudine da parte di ogni generazione.

 

È opportuno rilevare come il canto di lode di Maria sia articolato in tre momenti strettamente connessi tra loro: 1) la gratitudine traboccante per quanto il Signore ha compiuto in lei, 2) il giubilo per lo stile paradossale dell’intervento divino nella storia umana 3) ed infine l’esaltazione della sua fedeltà nel compiere le promesse date ad Israele.

 

Proprio il Magnificat ci può suggerire alcune piste di attualizzazione. Si sente in esso, tutto intessuto di citazioni ed allusioni anticotestamentarie, anzitutto il profondo legame esistente tra Maria ed il popolo degli umili che attendono la loro liberazione solo dal Signore. Questo però ci pone una domanda decisiva sul nostro modo di  leggere e valutare gli eventi della nostra vita: siamo messi di fronte ad un’alternativa: seguire un dio pagano che promette benessere e fortuna ai suoi devoti o confessare con Maria il Dio degli umili. Ma questo vuol dire credere che la storia degli uomini non è ultimamente determinata dal volere dei potenti e dei ricchi, bensì da una “controstoria” nella quale non contano la forza, la ricchezza e l’intelligenza, ma l’abbandono umile e confidente alla sua volontà. In questo nuovo ordine di cose i veri protagonisti sono i poveri, gli ultimi, i bisognosi, i miti.

 

La voce di Maria è quindi espressione di una lettura profetica della storia che il popolo di Dio deve incessantemente fare propria, anche se sembra negata dalle apparenze e contrastata da una logica d’incredulità.

 

La solennità odierna, che esalta il frutto della completa vittoria di Cristo sulla morte, verificatasi nella stessa persona di Maria, è l’invito a non temere neppure la morte, perché essa non è ultima parola sulla storia. L’ultima Parola è pronunciata solo dalla fedeltà di Dio alle sue promesse, fedeltà che si è manifestata compiutamente nel mistero pasquale del Cristo. Una paura soltanto ci è consentita, anzi richiesta: quella di perdere quella speranza di cui l’assunzione di Maria è segno consolante, o, altrimenti detto, di  venire separati dall’amore di Dio in Cristo Gesù a causa delle opere del peccato.

 

 

 

Vogliamo rivolgerci in preghiera alla Beata Vergine Maria:

 

O Regina del Paradiso, tu che dal cielo vegli su di noi, donaci di essere fedeli nella tua fede, incrollabili nella tua speranza, ardenti di carità nel tuo amore senza limiti, poveri e umili nella tua povertà e umiltà, semplici nella tua semplicità, miti nella tua mitezza, oranti nella tua incessante preghiera e nella tua invocazione di pace.

Tu, Madre nostra amatissima, sai bene come l’uomo d’oggi ha un estremo bisogno di gioia, di speranza, di pace. Aiutaci a seminare intorno a noi la tua gioia, la tua speranza, la tua pace. La pace ti chiediamo, o Maria, la pace su Gerusalemme e sul mondo intero.

Accendi il nostro cuore con il fuoco del tuo amore purissimo, in modo che il nostro incontro con Gesù nell’Eucaristia trasfiguri la nostra esistenza dalla paura della morte alla certezza della vita. Amen

 

 


11 agosto


Santa Chiara d’Assisi

 

 

Con la festa liturgica di santa Chiara il prossimo 11 agosto si conclude l’ottavo centenario della “conversio” di Chiara d’Assisi alla Porziuncola nella domenica delle Palme del 1211/1212.

 

L’evento vissuto da Chiara - per citare le parole di Benedetto XVI nella lettera inviata al vescovo di Assisi per tale occasione – “completava, per così dire, al femminile la grazia che aveva raggiunto pochi anni prima la comunità di Assisi con la conversione del figlio di Pietro di Bernardone” (lettera del 31.03.2012).

 

Per Chiara fu l’inizio del suo evangelico ‘fare penitenza’ (cf. TestsC 24; FF 2831), una sequela di Cristo, che le era passato accanto attraverso la mediazione di Francesco e della sua prima fraternitas. Da questa “grazia delle origini” è fiorito «il germoglio di una nuova fraternità, l’Ordine clariano (= delle Clarisse) che, divenuto albero robusto, nel silenzio fecondo dei chiostri continua a spargere il buon seme del Vangelo e a servire la causa del Regno di Dio» (Benedetto XVI).

 

Attraverso momenti e occasioni diverse, la celebrazione di questo centenario è stata significativa nella misura in cui ci si è lasciati interpellare dall’esperienza spirituale di Chiara, da quel carisma che le è stato donato e che, in una storia concreta di vita e di santità lungo i secoli e le generazioni dopo di lei, mostra anche oggi la sua vitalità e fecondità, continuando a “provocare” chi ne viene in qualche modo toccato. E le occasioni per esserlo sono ancora molte in questa nostra terra, segnata in ogni parte dalla presenza delle clarisse.

 

A conclusione di questo anno clariano, partendo dalle stesse parole di Chiara nelle Lettere ad Agnese di Praga, vengono proposte a tutti voi due suggestioni che santa Chiara rivolgeva alla sua amata “discepola”.

 

1) La prima è tratta dalla seconda lettera: “Memore del tuo proposito, come un’altra Rachele, tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza. I risultati raggiunti conservali; ciò che fai fallo bene, non arrestarti; ma anzi, con corso veloce e piede sicuro, che neppure alla polvere permetta di ritardarne l’andare, cautamente avanza confidente, lieta e sollecita nella via della beatitudine” (2LAg 11- 13). Tenendo fisso davanti agli occhi il punto di partenza, quella grazia di Dio che ci ha toccati e che fonda e motiva il nostro cammino, facciamo memoria del nostro “proposito”, certi che ciò che ci è accaduto, nuovamente riaccade come evento sempre presente, desiderosi di “fare bene” quello che siamo chiamati a fare, vivendo con intensità, pienamente presenti a ciò che si vive. Siamo invitati a non arrestarci nel cammino di sequela di Cristo nella nostra vita fraterna, ma a correre “con piede sicuro” in una tensione che ci impedisce di stare falsamente tranquilli e ci sollecita a reinterpretare sempre di nuovo cosa significa seguire il Signore, nella fiducia e nella letizia. Raggiunti da Gesù Cristo, direbbe san Paolo, corriamo a nostra volta verso quella meta che già ci è venuta incontro.

 

2) La seconda suggestione viene dalla immagine dello specchio che Chiara utilizza nella terza e quarta lettera ad Agnese. Attraverso questa metafora ella dice il suo modo di guardare al mistero di Cristo, nella sua umiltà, povertà e carità. Nella quarta lettera così Chiara scrive ad Agnese: “Guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto” (4LAg 15: FF 2902). Guardare il volto di Gesù Cristo, la sua Persona, il mistero della sua Incarnazione redentrice, con quel percorso discendente che dal principio dello specchio – la povertà e l’umiltà dell’Incarnazione – giunge alla fine alla carità della Passione, significa poter scrutare e riconoscere il proprio volto, e quindi rinnovare la consapevolezza che siamo chiamati ad assumere sempre più la forma del ‘volto’ di Cristo.

 

Senza dimenticare che – come in un gioco di specchi al contrario – è l’immagine del volto di Cristo riflessa nello specchio che dà la forma vera al nostro volto, alla nostra persona, per grazia.

 

Il “Padre delle misericordie”, attraverso l’intercessione di santa Chiara, ci benedica e sostenga il nostro cammino.

 

BENEDIZIONE DI S. CHIARA (FF 2854)

 

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.  Amen

 

Il Signore vi benedica, vi custodisca,

mostri a voi la sua faccia, vi usi misericordia,

rivolga a voi il suo volto e vi dia la sua pace

 

Io Chiara, serva di Cristo,

pianticella del santo padre nostro Francesco,

prego il Signore nostro Gesù Cristo

per la sua misericordia, per l'intercessione

della sua santissima madre Maria,

del beato arcangelo Michele,

del beato Francesco nostro padre

di tutti i santi e le sante di Dio,

perché lo stesso Padre celeste vi doni,

vi confermi questa santissima benedizione in cielo e in terra.

 

Voi siate sempre amanti di Dio, delle vostre anime,

e siate sempre solleciti di osservare

quanto avete promesso al Signore.

 

Il Signore sia sempre con voi,

ed ora voi siate sempre con Lui . Amen 

2 agosto: PERDONO D’ASSISI

 

Nella festa del “Perdono d’Assisi”  la Chiesa, che ci fa ascoltare il Vangelo dell’annunciazione a Maria (Lc 1,26-33), ripete anche a ciascuno di noi il saluto dell’angelo a Maria: «Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio». È una parola che ci dà coraggio e ci infonde fiducia. Il Signore oggi, come sempre nella storia della salvezza, si manifesta come Colui che è vicino ai suoi figli, come Colui che sta con il suo popolo per condividerne la sorte.

 

Lasciamo, allora, che la gioia oggi inondi il nostro cuore, perché anche noi, come Maria, abbiamo trovato grazia presso Dio, perché anche noi siamo invitati a non temerlo. Infatti, come non si ha paura di un amico o del proprio padre, così non dobbiamo aver paura di Dio. Ecco la Buona Notizia di oggi, il Vangelo che ci è stato annunciato. Il Dio in cui crediamo è, come amava chiamarlo santa Chiara, il Padre delle misericordie, Colui che si china con il cuore traboccante d’amore su ciascuno di noi, sulle nostre povertà, sulle nostre piaghe, quelle che si vedono e quelle che non si vedono, per offrirci guarigione e salvezza. Lo fa solo per amore, non vuole nulla in cambio, lo fa unicamente perché ci ama come un padre. Noi dobbiamo solo aprire il cuore e accettare questo dono, accogliere la sua misericordia, la sua grazia, il suo perdono. È Dio stesso, come abbiamo ascoltato nella prima lettura (Sir 24,1-4.22-31), ad invitarci: «Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele. La mia memoria rimarrà per tutti i secoli» .

 

Ma chi ha gustato la dolcezza di questa Parola di salvezza, chi si è lasciato toccare dalla misericordia di Dio, non può rimanere uguale a prima. La sua stessa vita si trasforma e si converte in annuncio di misericordia, così come accadde anche a san Francesco, che nel suo Testamento ricorda: «quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo».

 

Chi si è lasciato toccare dall’amore di Dio, vive di esso e lo testimonia con tutta la sua vita, facendo della sua vita un grande atto d’amore, come ci ricordava Benedetto XVI, durante la sua visita qui ad Assisi: «Che cosa è stata, miei cari fratelli e sorelle, la vita di Francesco convertito se non un grande atto d’amore? Lo rivelano le sue preghiere infuocate, ricche di contemplazione e di lode, il suo tenero abbraccio del Bimbo divino a Greccio, la sua contemplazione della passione alla Verna, il suo “vivere secondo la forma del santo Vangelo” (2 Test 14), la sua scelta della povertà e il suo cercare Cristo nel volto dei poveri». In Francesco tutto ci parla di Dio, perché Dio è diventato per lui il senso della vita. Quel senso che oggi sembra essere così spesso smarrito o mai trovato, noi sappiamo che l’uomo non potrà mai darselo da solo, ma può solo essergli donato e in Cristo gli è stato offerto una volta per tutte.

 

La festa di oggi, allora, è un invito per tutti a tornare a Cristo, ad abbeverarsi alla sorgente di acqua viva, per gioire nuovamente dell’abbraccio del Padre delle misericordie, per riscoprire una vita che è ricca di significato, anche quando è fatta delle cose piccole e banali di tutti i giorni. Ma la festa di oggi è, allo stesso tempo, un invito a lasciarci condurre da Gesù in mezzo ai “lebbrosi” del nostro tempo per usare con essi misericordia, per aprire le nostre braccia a chi è guardato con sospetto e disprezzo e magari vive o lavora accanto a noi, per accogliere e perdonare come noi, a nostra volta, siamo stati accolti e perdonati.

 

Anche noi vogliamo, proprio come ha fatto il santo d’Assisi, farci raggiungere dal Vangelo del perdono e dell’amore; vogliamo farci raggiungere da Gesù Cristo, perché trasformi la nostra vita in un inno di misericordia, per cantare con Maria: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono».

LA STORIA DEL PERDONO D’ASSISI

 

Una notte dell'anno del Signore 1216, Francesco era immerso nella preghiera e nella contemplazione nella chiesetta della Porziuncola presso Assisi, quando improvvisamente dilagò nella chiesina una vivissima luce e Francesco vide sopra l'altare il Cristo e alla sua destra la sua Madre Santissima, circondati da una moltitudine di Angeli. Francesco adorò in silenzio con la faccia a terra il suo Signore!  Gli chiesero allora che cosa desiderasse per la salvezza delle anime. La risposta di Francesco fu immediata: “Santissimo Padre, benché io sia misero peccatore, ti prego che a tutti quanti, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, gli conceda ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe”.

Quello che tu chiedi, o Frate Francesco, è grande - gli disse il Signore -ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghiera, ma a patto che tu domandi al mio Vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza”. E Francesco si presentò subito dal Pontefice Onorio III che in quei giorni si trovava a Perugia e con candore gli raccontò la visione avuta. Il Papa lo ascoltò con attenzione e dopo qualche difficoltà dette la sua approvazione. Poi disse: “Per quanti anni vuoi questa indulgenza?”. Francesco scattando rispose: “Padre Santo, non domando anni ma anime”. E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo richiamò: “Come non vuoi nessun documento?”. E Francesco: “Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l'opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni”. E qualche giorno più tardi insieme ai Vescovi dell'Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, disse tra le lacrime: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!”.

CONDIZIONI RICHIESTE PER RICEVERE

INDULGENZA DEL PERDONO D’ASSISI

 

1- Dal mezzogiorno del 1 agosto fino alla mezzanotte del 2 agosto si può ricevere, una volta sola, l’indulgenza plenaria detta “del Perdono d’Assisi”o “della Porziuncola”.

 

Le condizioni richieste sono:

1-         visita ad una chiesa e recita del Padre Nostro e del Credo;

2-         Confessione sacramentale;

3-         Comunione Eucaristica;

4-         Una preghiera secondo le intenzione del Papa;

5-         Disposizione d’animo che escluda ogni affetto al peccato.

 

L’indulgenza plenaria può essere applicata sia per i vivi che in suffragio dei defunti.

 

21 luglio

SAN LORENZO DA BRINDISI 

frate cappuccino e dottore della chiesa

[Udienza generale di Benedetto XVI - mercoledì, 23 marzo 2011]

 

 

Brindisi è la città che nel 1559 diede i natali a un insigne Dottore della Chiesa, san Lorenzo da Brindisi, nome che Giulio Cesare Rossi assunse entrando nell’Ordine dei Cappuccini. Sin dalla fanciullezza fu attratto dalla famiglia di san Francesco d’Assisi. Dopo la morte del padre si trasferisce con la madre a Venezia, e proprio nel Veneto conobbe i frati cappuccini, che in quel periodo si erano messi generosamente a servizio della Chiesa intera, per incrementare la grande riforma spirituale promossa dal Concilio di Trento. Nel 1575 Lorenzo, con la professione religiosa, divenne frate cappuccino, e nel 1582 fu ordinato sacerdote. Già durante gli studi ecclesiastici mostrò le eminenti qualità intellettuali di cui era dotato. Apprese facilmente le lingue antiche, quali il greco, l’ebraico e il siriaco, e quelle moderne, come il francese e il tedesco, che si aggiungevano alla conoscenza della lingua italiana e di quella latina, un tempo fluentemente parlata da tutti gli ecclesiastici e gli uomini di cultura.

 

Grazie alla padronanza di tanti idiomi, Lorenzo poté svolgere un intenso apostolato presso diverse categorie di persone. Predicatore efficace, conosceva in modo così profondo non solo la Bibbia, ma anche la letteratura rabbinica, che gli stessi Rabbini rimanevano stupiti e ammirati, manifestandogli stima e rispetto. Teologo versato nella Sacra Scrittura e nei Padri della Chiesa, era in grado di illustrare in modo esemplare la dottrina cattolica anche ai cristiani che, soprattutto in Germania, avevano aderito alla Riforma. Con la sua esposizione chiara e pacata egli mostrava il fondamento biblico e patristico di tutti gli articoli di fede messi in discussione da Martin Lutero. Tra di essi, il primato di san Pietro e dei suoi successori, l’origine divina dell’Episcopato, la giustificazione come trasformazione interiore dell’uomo, la necessità delle opere buone per la salvezza. Il successo di cui Lorenzo godette ci aiuta a comprendere che anche oggi, nel portare avanti con tanta speranza il dialogo ecumenico, il confronto con la Sacra Scrittura, letta nella Tradizione della Chiesa, costituisce un elemento irrinunciabile e di fondamentale importanza, come ho voluto ricordare nell’Esortazione Apostolica Verbum Domini (n. 46).

 

Anche i fedeli più semplici, non dotati di grande cultura, furono beneficati dalla parola convincente di Lorenzo, che si rivolgeva alla gente umile per richiamare tutti alla coerenza della propria vita con la fede professata. Questo è stato un grande merito dei Cappuccini e di altri Ordini religiosi, che, nei secoli XVI e XVII, contribuirono al rinnovamento della vita cristiana penetrando in profondità nella società con la loro testimonianza di vita e il loro insegnamento. Anche oggi la nuova evangelizzazione ha bisogno di apostoli ben preparati, zelanti e coraggiosi, perché la luce e la bellezza del Vangelo prevalgano sugli orientamenti culturali del relativismo etico e dell’indifferenza religiosa, e trasformino i vari modi di pensare e di agire in un autentico umanesimo cristiano. È sorprendente che san Lorenzo da Brindisi abbia potuto svolgere ininterrottamente questa attività di apprezzato e infaticabile predicatore in molte città dell’Italia e in diversi Paesi, nonostante ricoprisse altri incarichi gravosi e di grande responsabilità. All’interno dell’Ordine dei Cappuccini, infatti, fu professore di teologia, maestro dei novizi, più volte ministro provinciale e definitore generale, e infine ministro generale dal 1602 al 1605.

 

In mezzo a tanti lavori, Lorenzo coltivò una vita spirituale di eccezionale fervore, dedicando molto tempo alla preghiera e in modo speciale alla celebrazione della Santa Messa, che protraeva spesso per ore, compreso e commosso nel memoriale della Passione, Morte e Risurrezione del Signore. Alla scuola dei santi, ogni presbitero, come spesso è stato sottolineato durante il recente Anno Sacerdotale, può evitare il pericolo dell’attivismo, di agire cioè dimenticando le motivazioni profonde del ministero, solamente se si prende cura della propria vita interiore. "Il momento della preghiera è il più importante nella vita del sacerdote, quello in cui agisce con più efficacia la grazia divina, dando fecondità al suo ministero. Pregare è il primo servizio da rendere alla comunità. E perciò i momenti di preghiera devono avere nella nostra vita una vera priorità... Se non siamo interiormente in comunione con Dio, non possiamo dare niente neppure agli altri. Perciò Dio è la prima priorità. Dobbiamo sempre riservare il tempo necessario per essere in comunione di preghiera con nostro Signore". Del resto, con l’ardore inconfondibile del suo stile, Lorenzo esorta tutti, e non solo i sacerdoti, a coltivare la vita di preghiera perché per mezzo di essa noi parliamo a Dio e Dio parla a noi: "Oh, se considerassimo questa realtà! - esclama - Cioè che Dio è davvero presente a noi quando gli parliamo pregando; che ascolta veramente la nostra orazione, anche se noi soltanto preghiamo con il cuore e la mente. E che non solo è presente e ci ascolta, anzi può e desidera accondiscendere volentieri e con massimo piacere alle nostre domande" (Benedetto XVI).

 

Un altro tratto che caratterizza l’opera di questo figlio di san Francesco è la sua azione per la pace. Sia i Sommi Pontefici sia i principi cattolici gli affidarono ripetutamente importanti missioni diplomatiche per dirimere controversie e favorire la concordia tra gli Stati europei, minacciati in quel tempo dall’Impero ottomano. L’autorevolezza morale di cui godeva lo rendeva consigliere ricercato e ascoltato. Fu proprio in occasione di una di queste missioni diplomatiche che Lorenzo concluse la sua vita terrena, nel 1619 a Lisbona, dove si era recato presso il re di Spagna, Filippo III, per perorare la causa dei sudditi napoletani vessati dalle autorità locali.

 

Fu canonizzato nel 1881 e, a motivo della sua vigorosa e intensa attività, della sua scienza vasta e armoniosa, meritò il titolo di Doctor apostolicus, "Dottore apostolico", da parte del Beato Papa Giovanni XXIII nel 1959.  Tale riconoscimento fu accordato a Lorenzo da Brindisi anche perché egli fu autore di numerose opere di esegesi biblica, di teologia e di scritti destinati alla predicazione. Inoltre egli mette in evidenza il ruolo unico della Vergine Maria, di cui afferma con chiarezza l’Immacolata Concezione e la cooperazione all’opera della redenzione compiuta da Cristo.

 

Con fine sensibilità teologica, Lorenzo da Brindisi ha pure evidenziato l’azione dello Spirito Santo nell’esistenza del credente. Egli ci ricorda che con i suoi doni la Terza Persona della Santissima Trinità illumina e aiuta il nostro impegno a vivere gioiosamente il messaggio del Vangelo. "Lo Spirito Santo – scrive san Lorenzo – rende dolce il giogo della legge divina e leggero il suo peso, affinché osserviamo i comandamenti di Dio con grandissima facilità, persino con piacevolezza".

 

Vorrei completare questa breve presentazione della vita e della dottrina di san Lorenzo da Brindisi sottolineando che tutta la sua attività è stata ispirata da un grande amore per la Sacra Scrittura, che sapeva ampiamente a memoria, e dalla convinzione che l’ascolto e l’accoglienza della Parola di Dio produce una trasformazione interiore che ci conduce alla santità. San Lorenzo da Brindisi ci insegna ad amare la Sacra Scrittura, a crescere nella familiarità con essa, a coltivare quotidianamente il rapporto di amicizia con il Signore nella preghiera, perché ogni nostra azione, ogni nostra attività abbia in Lui il suo inizio e il suo compimento. E’ questa la fonte da cui attingere affinché la nostra testimonianza cristiana sia luminosa e sia capace di condurre gli uomini del nostro tempo a Dio.

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Calendario liturgico

 

3 luglio:          san Tommaso apostolo

-Anniversario dell’approvazione delle riforma cappuccina (1528)

6 luglio:          santa Maria Goretti, vergine e martire 

10 luglio:        santa Veronica Giuliani, clarissa cappuccina

11 luglio:            San Benedetto, abate e patrono d’Europa

14 luglio:           san Camillo De Lellis, fondatore dei Camilliani

15 luglio:         san Bonaventura, vescovo e dottore della Chiesa

16 luglio:         B.V. Maria del Carmelo

21 luglio:        San Lorenzo da Brindisi, frate cappuccino

23 luglio:        santa Brigida, religiosa, patrona d’Europa

25 luglio:        san Giacomo, apostolo

26 luglio:        santi Gioacchino e Anna, genitori della B.V. Maria

27 luglio:        beata M. Maddalena Martinengo, clarissa cappuccina

31 luglio:         sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti

 

LA DEVOZIONE AL

SACRO CUORE DI GESU’

 

Vedere se e come la devozione al cuore di Gesù affonda le radici nelle Scritture è certamente importante. La Parola di Dio, infatti, è il punto obbligato a cui guardare, se si vuole vivificare o rinnovare o purificare la fede del popolo di Dio e le sue concrete manifestazioni.

Non è però dal termine "cuore" che si deve anzitutto partire, bensì dal suo significato profondo, che è l'amore di Gesù per il Padre e per noi.

Nella Bibbia il cuore e l'amore non sono collegati come nella nostra cultura. Per noi il cuore è la sede dell'amore e dei sentimenti. Nel linguaggio biblico invece, il cuore è la persona intera, colta nella sua unità e nel suo centro decisionale. E' questo un primo dato che già può dirci qualcosa: la devozione al Sacro Cuore raggiunge l'intera persona  di Gesù.

Ma parte questa prima osservazione, è più importante ricordare che la liturgia, e il magistero, la stessa storia della devozione al Sacro Cuore ci orientano verso una scena evangelica molto precisa.

 

E' la scena di Gesù in Croce, dal cui fianco trafitto escono l'acqua e il sangue (Gv 19,31-37). Per capire la devozione al Sacro Cuore non si può non meditare questa scena. Le due immagini - quella di Gesù in Croce che dona il sangue e l'acqua e quella di Gesù che mostra il cuore aperto - sembrano diverse, ma in realtà sono identiche. La differenza sta soltanto in una trasposizione culturale, che non tradisce né oscura il significato evangelico.

In tutti i vangeli il trionfo del Crocifisso - cioè il trionfo del suo amore apparentemente sconfitto ma in realtà vittorioso - è evocato nel cuore stesso del fallimento. Il modo però è differente da vangelo a vangelo. I sinottici utilizzano tratti di una certa grandiosità: le tenebre coprono la terra, il velo del tempio si rompe, i morti risorgono, la folla si batte il petto.

Giovanni utilizza invece un particolare modesto, in apparenza insignificante: dal fianco di Gesù trafitto escono sangue e acqua. In tutti e quattro i vangeli la crocifissione si conclude con una dichiarazione di fede. Marco, Matteo e Luca - sia pure con alcune differenze fra loro - la mettono sulle labbra del centurione che sta a fare la guardia: "Vedendolo morire in quel modo, il centurione che stava di fronte disse: Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio" (Mc 15,39).

Giovanni utilizza invece una citazione del profeta Zaccaria (12,10): "Guarderanno a Colui che hanno trafitto", facendo in tal modo del Crocifisso il punto a cui tutti i credenti - in tutti i tempi - guarderanno. Il Trafitto dal cui fianco escono il sangue e l'acqua è la memoria fissa della fede, la memoria per sempre. Qui lo sguardo di tutte le generazioni deve arrestarsi immobile. Si può dire che il Trafitto, che dona il sangue e l'acqua, è il mistero dell'incarnazione nella sua massima trasparenza: è qui che, infatti, si scorge tutta la concretezza dell'umanità del Figlio di Dio, la sua totale obbedienza al Padre, il suo amore giunto  al limite estremo. Lo sguardo penetrante della fede vede tutto questo. Il verbo "guardare" che l'evangelista utilizza è un verbo carico di significati: accorgersi, fermare l'attenzione,  comprenderne il senso, credere e convertirsi.

Ma perché il sangue e l'acqua? Il lettore del vangelo di Giovanni, giunto a questo punto, è preparato a scorgere nel "sangue" che scaturisce dal fianco di Gesù il segno del valore redentore del suo sacrificio, e nell'"acqua" il dono dello Spirito e della vita che di quel sacrificio sono il frutto. Ma è anche preparato a scorgere nel sangue e nell'acqua i sacramenti dell'eucaristia e del battesimo. Sono i doni dell'amore di Gesù.

Lo sguardo della fede vede nel Trafitto l'amore di Gesù per il Padre e per noi, e in questo amore "umano" contempla l'amore del Padre per noi. Ma lo sguardo della fede scorge anche la malvagità dell'uomo, che ha trafitto Gesù, e nel contempo l'amore misericordioso di Gesù che, trafitto, dona la vita per coloro che lo respingono. E' in questo amore misericordioso che l'uomo trova, nonostante il peccato, la propria dignità e la ragione per continuare a sperare.

La devozione cristiana - che certamente si è ispirata a questa pagina giovannea, la quale non presenta allo sguardo della fede un qualsiasi elemento della salvezza, ma il suo centro - ha sostituito al "Cristo trafitto che dona il sangue e l'acqua" il Cristo "dal cuore aperto". Una trasposizione culturale, come abbiamo già detto, ma legittima. Anzi, non una semplice trasposizione, un semplice ridire con diverso simbolo,  ma una rilettura e un approfondimento. Il mistero del Trafitto viene infatti colto nella sua umanità, nella sua interiorità e nella sua radice. Il "cuore" dice umanità, interiorità e amore. Il "cuore" indica l'intera persona del Salvatore, ma se ne sottolinea l'umanità, e soprattutto se ne evidenzia il centro propulsore, la sorgente intima delle decisioni,  dell'amore e della donazione di sé. Di tutto questo il cuore è appunto il simbolo. E questi sono i grandi valori della devozione al Sacro Cuore, una devozione che non si colloca alla periferia del mistero cristiano, ma al centro.

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15 giugno

Solennità del Sacro Cuore di Gesù

 


Fate questo in memoria di me

Corpus Domini 2012

 

 

 

L’Eucaristia è il centro dell'esistenza della Chiesa, perché nel segno del pane e del vino si fa realmente presente il Signore. Essa è il luogo per eccellenza della comunione con Dio e fonte e culmine di tutta la vita cristiana.        

 

Ciò nonostante attorno alla celebrazione eucaristica spesso si fa il vuoto. Il “precetto domenicale” che comporta l’impegno alla partecipazione alla Messa nel giorno festivo, rende maggiormente visibile, più che negli altri sacramenti, il livello di maturità raggiunto dalla nostra fede. Pigrizie, incomprensioni, storture e resistenze rendono difficoltosa e altalenante la partecipazione, specialmente tra i giovani, grandi assenti alla Messa domenicale.    

 

Sono tanti i motivi che raffreddano gli entusiasmi attorno alla mensa eucaristica: chi la giudica ripetitiva, si annoia e la evita; chi la sente estranea alla vita la ritiene superflua e si affida al rapporto diretto con Dio nella preghiera privata; chi la ricerca per trovare il calore di una comunità, rimane spesso deluso da certi stili formali e burocratici...      

 

Per una Messa che può apparire insignificante e poco espressiva occorre trovare un rimedio, anche se non siamo noi che dobbiamo cambiare la Messa e prestarle l’anima, ma è la Messa che deve cambiare noi. Le difficoltà tendono a sciogliersi quando si arriva a capire che la celebrazione eucaristica non è qualcosa che facciamo noi, ma qualcosa che Cristo ha fatto per noi: il dono della sua vita. Da qui scaturisce lo stupore, la lode e la gioia: il terreno buono su cui è possibile coltivare il rendimento di grazie, cioè l’Eucaristia. 

 

Memoria che rende presente la morte e risurrezione del Signore  

 

Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24): il comando di Gesù, che leggiamo nei racconti neotestamentari dell’ultima cena, è ripetuto ancora oggi al centro di ogni liturgia eucaristica. In tal modo la Chiesa dichiara di agire in obbedienza a quanto il Signore stesso ha voluto. Quel comando, come ogni altro che Gesù ha dato, era insieme una promessa: ogni volta che voi farete questo in memoria di me, io sarò in mezzo a voi e voi sarete in comunione con me. Non è un semplice ricordo né una semplice promessa, ma una realtà. La parola “memoria” qui ha un significato molto diverso di quello che le viene comunemente attribuito nel linguaggio ordinario. La Messa celebra e ripresenta il sacrificio di Gesù, consentendoci in tal modo di parteciparvi, presenti anche noi, sebbene la croce sia stata e resti un evento passato e personale di Gesù. Nella Messa avviene ciò che è avvenuto nell’ultima cena di Gesù: lì i suoi gesti e le sue parole non sono stati semplicemente una prefigurazione del Calvario, né semplicemente una spiegazione del suo significato salvifico. Oggi la Messa non è semplicemente un ricordo del sacrificio del Calvario o una spiegazione del suo significato. Essa è molto di più: la parola di Gesù è parola efficace; ciò che egli annuncia si realizza nel momento stesso e per il fatto stesso che egli lo annuncia.        

 

In forza di questa efficacia, i discepoli nell’ultima cena non sono semplicemente davanti alla notizia degli eventi che avverranno al Calvario. Quegli eventi sono già in atto, realmente presenti nella cena: i discepoli li stanno vivendo. Non solo è predetto il futuro, ma, addirittura, è offerto ai discepoli come dono il futuro profetizzato.       E così è oggi in ogni Messa. I gesti e le parole di Gesù – quelli dell’ultima cena come, oggi, quelli che il sacerdote compie in suo nome nella Messa – sono efficaci, compiono ciò che dicono, realizzano ciò che significano. Con la cena eucaristica i discepoli di allora e di oggi hanno così veramente accesso a un evento altrimenti inaccessibile: la morte e risurrezione di Cristo.        

 

È in questo senso forte che la Chiesa, celebrando l’Eucaristia, “fa memoria” della vita di Gesù, una vita in dono, e in questa memoria trova la forza e la direzione per entrare a sua volta, con tutta se stessa, nella logica del dono. 

           

 Fare comunione col Signore e tra noi

                       

La comunione con Gesù non è un mistero che si celebra semplicemente nella liturgia, con gesti e parole. Il comandamento (“fate questo in memoria di me” ha un duplice spessore: fare memoria nel sacramento e fare memoria nella vita, rendere presente Gesù nel sacramento e renderlo presente nella carità.   In questo senso è particolarmente eloquente il racconto del Vangelo di Giovanni, che non riferisce lo spezzare del pane, ma la lavanda dei piedi, un gesto simbolico con il quale Gesù mostra che l’intera sua vita, come la morte ormai imminente, altro non sono che gesto di donazione, di servizio e di condivisione (Gv 13,1-20).

 

Beati gli invitati alla cena del Signore”: è questo un invito che ci viene rivolto in ogni Messa. È un invito a fare comunione con il Signore e anche fra noi. La fraternità non è il senso ultimo dell’Eucaristia, che resta sempre il dono e la presenza di Gesù. Questo è vero: la fraternità, la solidarietà, gli stessi ideali di giustizia e di pace sono realtà precarie, se poggiano su se stesse. Ma sono solide se poggiano sul dono e sulla presenza di Gesù, se da quel dono e da quella presenza mutuano la forza e la direzione, se di quel dono e di quella presenza sono la manifestazione visibile, la pregustazione oggi di una pienezza che ci è promessa nel futuro.    

 

L’Eucaristia è il sacramento con il quale tutta la nostra vita è chiamata a concentrarsi nel gesto di suprema donazione di Gesù, in quel gesto unificarsi e trasfigurarsi, acquistando così un valore e un significato che altrimenti non avrebbe. L’Eucaristia dà senso alla vita: non solo alla vita di ciascuno, ma anche alla storia umana nella sua totalità.        

 

Questa insistenza sull’importanza della vita non deve però essere fraintesa. E vero che se la celebrazione eucaristica non trova la sua espressione nella vita, appare certamente come un segno vuoto: ogni sacramento è sempre orientato alla vita. Ma la non corrispondenza con la vita, non basta per rendere falso e vuoto il segno. La verità e l’efficacia del segno sacramentale, infatti, riposano sulle parole di Gesù e sulla sua promessa di essere presente fra noi sino alla fine dei secoli. La verità del sacramento non poggia sulla nostra carità. 

 

Presenza reale del Signore Gesù

                       

Nei segni del pane e del vino è realmente presente il Signore. È questa la certezza più consolante, anche se per molti è proprio questo il punto più difficile da accettare. La fede ci dice che i gesti e le parole trasformano la sostanza stessa del pane e del vino, ne toccano misteriosamente la natura profonda, fanno di queste cose materiali una realtà nuova. E presente la persona di Cristo nella sua pienezza e nella sua totalità.            

 

Questa presenza rimane disponibile nei segni del pane e del vino anche oltre la celebrazione della Messa. La devozione, l’adorazione dei fedeli e la visita al santissimo Sacramento, proprio perché hanno in se stesse un ineliminabile orientamento al sacrificio e al rendimento di grazie che nella Messa si celebra, consentono di attingere ulteriormente alla ricchezza di quel mistero.

 

Parola di vita eterna                       

 

La Messa per molti cristiani è insignificante, si osservava all’inizio. Ma il rimedio – lo abbiamo compreso – non può esaurirsi nella ricerca di forme espressive, capaci di rendere la celebrazione più vivace, più spontanea, più idonea a suscitare simpatia e affiatamento reciproco. Il rimedio deve essere trovato più in profondità, là dove la riflessione sul gesto di Gesù ci ha condotto.            

 

Il Vangelo racconta che molti discepoli, al sentire Gesù parlare della sua carne da mangiare e del suo sangue da bere, gli voltarono le spalle dicendo: “Questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?”. E alla domanda di Gesù se anche i Dodici volessero andarsene, Pietro rispose professando la propria fede e quella degli apostoli: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,60.69).   

 

Parola di vita eterna è stata l’ultima cena; parola di vita eterna è la celebrazione eucaristica. Consegnandosi a noi come cibo, Gesù per primo realizza nella sua persona il programma proposto ai discepoli, secondo il quale nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i fratelli (Gv15,13). La comunità fa l’Eucaristia per vivere a sua volta del dono che le viene dall’Eucaristia, dono di comunione con il Signore e con tutti i fratelli. 

 


27 maggio: PENTECOSTE

 

Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22-23).

 

Gesù lo aveva promesso! Durante l’ultima cena aveva parlato ai propri discepoli della sua tragica partenza da loro, ma aveva anche preannunziato un suo ritorno e questa volta non da solo! Con Lui sarebbero venuti anche lo Spirito Santo ed il Padre a prendere dimora nel cuore dei discepoli!

 

Ora la promessa si realizza, perché il Risorto si mostra loro come il vivente che viene  a visitarli e ad alitare  su di loro lo Spirito Santo. È questo l’equivalente giovanneo del racconto di Pentecoste che Luca ci offre negli Atti degli Apostoli. Il testo è molto più che una semplice narrazione di un’apparizione del Risorto, ma la traccia di un incontro con la realtà del Dio di  Gesù, e nella sua grande densità permette di rintracciare gli elementi essenziali di una teologia dello Spirito Santo quale frutto preziosissimo della Pasqua di Cristo, elargito ai discepoli.  

 

Lo Spirito è la forza che strappa i discepoli dal loro ripiegamento su se stessi ed orienta i loro sguardi sul Signore presente in mezzo a loro. Egli è anche la luce che consente loro di potere guardare le piaghe di Gesù e di gioire («mostrò loro le mani e il costato e i discepoli gioirono al vedere il Signore»).

La gioia che provano i discepoli quando Gesù viene a visitarli  non è dovuta semplicemente al fatto che ormai essi sanno che Gesù è nuovamente vivo e ha vinto, ma una è gioia più vera e profonda. Essa deriva dal dono dello Spirito che li guida alla verità tutta intera e li rende capaci di potarne il peso. Questa verità ‘tutta intera’ e tanto pesante è la morte di Gesù che per una logica puramente umana, senza il soccorso dello Spirito resta scandalosa e assolutamente incomprensibile.

 

Lo Spirito tante volte promesso viene  effuso sui discepoli  per ribaltare anzitutto nel loro cuore il giudizio del ‘mondo’ su Gesù e mostrare come la sua croce non sia non la smentita della sua missione, ma fonte di vita inesauribile, e la manifestazione di un amore senza limiti. Allora nella luce della Pasqua, cioè nella comprensione più profonda che  lo Spirito assicura, diventa chiaro quanto Giovanni scrive raccontando gli ultimi istanti della Passione: «e chinato il capo, consegnò lo Spirito».

 

Lo Spirito è così la forza che li abilita alla missione ricevuta da parte di Gesù così come egli l’ha ricevuta dal Padre. In altre parole, lo Spirito fa entrare i discepoli nella catena della testimonianza, che non è affatto un comunicare informazioni in modo neutrale, ma un far partecipe l’altro di quanto si è sperimentato e vissuto in prima persona. Più precisamente i discepoli vengono dallo Spirito condotti a riconoscere che Gesù è il Figlio che proviene dal Padre e, aprendosi alla fede nella sua divina figliolanza, scoprono anche il loro stesso essere figli ed  essere mandati nel mondo a far conoscere il Padre: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi».

 

Lo Spirito è poi una pace profonda che il loro cuore sta conoscendo per la prima volta, perché deriva da un sapersi perdonati, da un sentirsi riaccolti da Gesù, nonostante  il loro tradimento ed il loro abbandono del loro Signore. È pace che consente di non guardare più la realtà con occhi colmi di speranza e non più ostili e diffidenti,  come invece li ha trovati Gesù, entrando nel Cenacolo. Più volte Gesù aveva promesso ai discepoli il dono di questa pace che il mondo non avrebbe potuto rapire perché non la conosceva;  ebbene ora il dono si compie ed inonda finalmente il loro cuore!

 

Lo Spirito è la primizia del mondo nuovo (l’ottavo) che Gesù inaugura con la sua risurrezione. E, se nella prima creazione Dio aveva alitato il suo soffio vitale sull’uomo, ora è Gesù, il Figlio di Dio e l’uomo nuovo, a soffiare sui propri discepoli lo Spirito Santo, il soffio che li riplasma e li rende creature nuove, partecipi della nuova creazione.

 

Da parte dei discepoli non vi è alcuna condizione previa, cioè qualche qualità o azione specifica  che devono compiere per potere ricevere lo Spirito come il dono divino per eccellenza. Essi devono  soltanto essere disponibili a ricevere nella fede lo Spirito che li investe della stessa missione di Gesù e cioè la proclamazione del perdono che la sua morte per amore ha arrecato al mondo.

 

Lo Spirito in quanto dono del Crocifisso Vivente viene sperimentato dai discepoli come sorgente di riconciliazione, come ciò che da verità alla parola del  perdono. E, proprio grazie al soccorso dello Spirito, i discepoli potranno affrontare tale immenso compito senza lasciarsi intimorire dal fatto che la parola di cui vengono costituiti portatori, opererà una discriminazione, certamente dura e dolorosa da accettare per il messaggero, tra chi decide di rinascere dallo Spirito e di vivere da figlio di Dio e chi invece vuole restare nel suo vecchio mondo di peccato.

 

 

Vieni Santo Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore. Alleluia!

 

Ricorrenze e Avvisi

 

31 maggio: Visitazione della B.V. Maria,  festa

2 giugno: san Felice da Nicosia, frate cappuccino (+  1787)

3 giugno: solennità della SS.ma Trinità

 

8 giugno: beato Nicola da Gesturi, frate cappuccino (+ 1958 )

10 giugno: solennità del Corpo e del Sangue di Gesù

 

11 giugno: san Barnaba, apostolo

12 giugno: beata Florida Cevoli, clarissa cappuccina (+ 1767 )

13 giugno: sant’Antonio di Padova(+ 1231), festa

 

15 giugno: solennità del Sacro Cuore di Gesù,

           titolare della nostra Chiesa

 

 

 

celebrazioni in preparazione

alla solennità del Sacro Cuore di Gesù

 

 

+ lunedì alle ore 18,00 presiede don Natale Castelli, decano e 

parroco della Comunità pastorale “SS. Redentore e s. Gregorio Magno”, 

+ martedì alle ore 18,00 presiede p. Adriano Moro,

superiore dei Camilliani

+ mercoledì alle ore 18,00 presiede don Giorgio Riva,

parroco di santa Francesca Romana

+ giovedì alle ore 18,00 preside don Franco Berti,

parroco di san Vincenzo de’ Paoli

 

+ venerdì solennità del Sacro Cuore di Gesù,

alle ore 18,00 presiede il Ministro provinciale