per nutrire la fede …

IL SEGRETO DELLA PERFETTA LETIZIA
Omelia del vescovo Francesco LAMBIASI -
Rimini  28 settembre 2014


E’ stato detto: “E’ meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo” (Ignazio Ant.). “Che ve ne pare?”, sorelle e fratelli: non si trova concentrato nel lampo di questa frase il succo del messaggio proposto da Gesù con la parabola dei due figli (Mt 21,28-32)? Non vi sembra che nella filigrana di questa citazione si intraveda scolpito il profilo, rispettivamente, del primo e del secondo dei due fratelli del vangelo?

Ma ora dobbiamo spiegarci quale passaggio sia avvenuto nel cuore del primo figlio, il “ribelle-obbediente”: perché dopo il rifiuto opposto all’invito del padre di andare a lavorare nella sua vigna, si è poi risolutamente deciso ad andarci? E’ Gesù stesso che ci svela come e perché questo giovane abbia preso la decisione diametralmente opposta al suo diniego iniziale: perché “si è ricreduto” (v. 29), cioè ha radicalmente cambiato parere, ha fatto una sorta di “inversione ad U”, si è ravveduto, insomma si è letteralmente pentito della sua ribellione. Da questo verbo – pentirsi – come sappiamo, deriva la parola penitenza, ed è proprio questa la parola che ci spiega il ravvedimento o conversione avvenuta nel cuore di Francesco, quando ha deciso di cambiare vita. E’ lui stesso ad usarla nel suo Testamento: “Il Signore dette a me, Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da   essi, ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E   di poi, stetti un poco e uscii dal mondo”.

Francesco non era né un pagano idolatra, né un ateo o un incallito miscredente. Era stato battezzato ed educato cristianamente dalla mamma, donna Pica. Tutto lascia pensare che dicesse le preghiere al mattino e alla sera, che andasse a messa la domenica, che facesse elemosine ai poveri, fuori della cattedrale di san Rufino. Ma arrivato attorno ai venti anni, le ben note circostanze della sua vita – il fallimento del suo sogno di diventare un celebre cavaliere “senza macchia e senza paura”, la prigionia a Perugia, la malattia spossante e deprimente – gli fecero avvertire tutta l’insoddisfazione di una fede ridotta a riti, forme e a vuote parole.

Toccato dalla grazia, decise di entrare tra i “penitenti”, ossia tra quei cristiani decisi a cambiare vita e a vivere un vangelo fatto di… “fatti di vangelo”. Dopo aver incontrato il Crocifisso a san Damiano e averlo rivisto e abbracciato nel lebbroso, fece come Cristo Gesù, di cui abbiamo ascoltato nella seconda lettura (Fil 2,1-11), che “spogliò se stesso” o “svuotò se stesso”. Anche Francesco “spogliò se stesso” sulla piazza maggiore di Assisi, e, baciando il lebbroso, il Celano dice che “fece violenza a se stesso” e “da quel momento decise di disprezzarsi sempre di più”. E cominciò a gridare il vangelo con la vita e ad esortare i fedeli non tanto a fare ‘penitenze’, ma piuttosto a “fare penitenza”, a cambiare vita.

Ha ragione allora chi addita Francesco come l’esempio più limpido e credibile di riforma della Chiesa “per via di santità” (Y. Congar). Francesco non pensò mai di essere chiamato a riformare la Chiesa. Anche il sogno in cui Innocenzo III avrebbe visto il Poverello sostenere con la sua spalla la chiesa cadente del Laterano, come nell’affresco di Giotto, non dice nulla di più. In effetti questo sogno lo fece il Papa, non Francesco. Allora ecco cosa significa essere riformatori della Chiesa per via di santità: significa esserlo, senza saperlo, anzi senza neppure dirlo a se stessi, senza pretendere a tutti i costi di apporre il proprio autografo sotto il progetto di riforma della Chiesa.
Francesco realizzò in se stesso la riforma della Chiesa, e così indicò – tacitamente, ma effettivamente – alla comunità cristiana l’unica via per uscire dalla crisi: riaccostarsi al Vangelo, riaccostarsi alla gente, e in particolare alla povera gente.

Anche noi oggi siamo chiamati dal Signore, attraverso papa Francesco, alla “riforma della Chiesa in uscita missionaria”. Per questo ci è richiesto di fare come ha fatto Francesco sulle orme di Gesù: liberarci dall’escalation del possesso e dell’accumulo. Troppo spesso infatti ci si illude di trovare nel possesso quiete e libertà, ma poi ci si accorge che bisogna ancora affannarsi per conservare e magari moltiplicare il possesso accumulato.

L’itinerario di Francesco è chiaro e diritto: la fede – ossia un grande amore per Gesù – porta alla povertà. La povertà – il vivere “senza nulla di proprio” – porta alla libertà. E la libertà porta alla gioia, alla vera piena perfetta letizia. E’ il vangelo secondo Gesù, è il messaggio di Francesco e Chiara di Assisi, …

Liberi nella gioia: si può? Sì, si può. Provare per credere.