per nutrire la fede …

“CINQUE DONNE ALLA CULLA DI GESÙ”
di Sandro CAROTTA - OSB

Nella lunga catena genealogica con la quale Matteo apre il suo Vangelo (Mt 1,1-17) viene tracciato il percorso della Storia della salvezza, che da Abramo culmina in Gesù di Nazaret. È una storia che inizia nel segno dell’Alleanza, prosegue nella fedeltà indefettibile di Dio e culmina in Gesù, pure lui figlio del patto, circonciso come ogni maschio ebreo l’ottavo giorno.

Da Abramo a Gesù sono ben quarantadue generazioni, un numero simbolico. Secondo la tradizione ebraica quarantadue sono le tappe del cammino di liberazione di Israele dall’Egitto fino alla pianura di Gerico. Matteo vuole così indicare che la vera terra promessa è Gesù.

Non sfugge però come questa storia sia pure contrassegnata, a causa del peccato umano, da irregolarità e vergogna. C’è inoltre il martellante verbo “generare”, che accompagna la scansione dei tempi dei vari protagonisti. Ma, come notava lo scrittore Luigi Santucci, “all’estuario di tanta fecondità, di tanti concepimenti, succede un uomo che non feconda, che non concepisce: un uomo asciutto, la cui pelle coincide con il proprio pudore”. È Giuseppe, lo sposo di Maria.

Chi è Giuseppe? Il suo nome, dal verbo ebraico yasof, significa “aumentare”. Yasof è poi costruito sulla radice sof (“limite”). La fecondità e la crescita passano attraverso il limite. E qui vediamo già profilarsi il mistero dell’Incarnazione: Dio, che “cieli e i cieli dei cieli non possono contenere” (1 Re 8,27), si fa carne nel grembo di una donna. Dio assume il limite e appare l’immensità. L’irruzione di Dio nella vita di Giuseppe ha portato certamente un “aumento”: di fede, anzitutto. Giuseppe ha creduto alla versione inverosimile della gravidanza di Maria. Ha detto “sì” all’angelo, che gli parlava nel sonno, ha poi sposato Maria, sottraendola così ai sassi della lapidazione, e, infine, ha iscritto Gesù nella discendenza di Davide.

Ma nella genealogia, Matteo inserisce anche quattro donne. Questo è sorprendente, perché le donne non compaiono mai nelle liste genealogiche. Inoltre, queste quattro donne, a titolo diverso, sono peccatrici. Abbiamo Tamar, che si finge prostituta pur di avere un figlio. Troviamo poi Raab, prostituta di mestiere, che giunge a tradire il suo popolo. C’è Betsabea, la moglie adultera di Uria. Conclude Rut, la moabita, che si fa sposare da un ricco vedovo. Ma c’è una quinta donna, quella determinante per la nascita del Messia, Maria, che resta incinta di un figlio prima della nozze. Sul perché di queste donne nella genealogia di Cristo le interpretazioni sono state varie. Noi ora ci concentreremo sulla singolarità e sul ruolo di ognuna nel disegno della salvezza.

Tamar: quando la giustizia “trasgredisce” la Legge
Tamar era una donna molto bella, se ci atteniamo al significato del suo nome “palma” (cfr Ct 7,8). Stando a Gen 38 appare anche una donna inquieta nei confronti del Dio degli Ebrei. Vuole infatti introdursi nell’albo di Israele. Ha però solo una possibilità: il grembo. Tamar è pure una donna frustrata a causa di una maternità sempre contraddetta. Dai primi due figli di Giuda, infatti, non è riuscita ad avere prole, data la morte troppo precoce di entrambi. Ci sarebbe un terzo figlio, Sela, ma Giuda, temendo per la sua vita, adduce il pretesto della giovane età del ragazzo e rimanda a casa sua Tamar senza assicurarle una discendenza, come avrebbe previsto invece la legge del levirato.

Tamar non si scoraggia, attende pazientemente la situazione propizia. E questa pare verificarsi quando Giuda, rimasto vedovo, si reca a Timna per la tosatura delle pecore. Tamar viene a saperlo e si fa trovare sulla strada vestita da prostituta. A quel tempo queste donne non andavano scoperte ma velate. Tamar è ben consapevole del suo gesto e della trasgressione della Legge del Dio degli Ebrei ma vuol far valere un suo diritto, a tutti i costi. Giuda si fa tentare e cede alla passione. Al termine, promette un capretto come ricompensa a quel genere di amore che va pagato subito. Tamar allora, furbescamente, chiede come pegno il sigillo, il nastro dell’abito e il bastone di Giuda. Questi acconsente. Il giorno dopo Giuda manda il pattuito ma non trova più la prostituta. Dopo tre mesi, viene a sapere che la nuora è rimasta incinta di uno sconosciuto; esce allora con una espressione sdegnata e allo stesso istante ipocrita: “Conducetela fuori e sia bruciata!” (Gen 38,24). Tamar lascia fare, ma mentre viene condotta via manda i pegni al suocero dicendogli di essere incinta del proprietario. Giuda comprende ed esclama: “Lei è più giusta di me: infatti, io non l’ho data al mio tiglio Sela” (Gen 38,26). L’adultera è riconosciuta giusta. Passaggio davvero notevole!

Scrive Erri de Luca: “Tamar inaugura la breve lista di danne entrate nell’elenco del Messia, che con il loro corpo infrangono la Legge per dare una più giusta e misteriosa applicazione”.

Nascono due gemelli, Peres e Zerach, lottatori fin dal grembo materno. II primogenito sarebbe Zerach, a cui viene attaccato alla mano un filo rosso dalla levatrice. Ma poi questi ritira la mano e viene alla luce Peres. È interessante il simbolo del filo rosso che troveremo cordicella, dopo molto tempo, nella storia di Raab, la prostituta di Gerico. Per lei questa cordicella significherà la salvezza. Dentro la matassa sovente arruffata della storia c’è un filo rosso, quello di Dio; è certamente un filo esile ma che traccia il cammino della salvezza, la quale passa attraverso i calcoli umanissimi e le grandi debolezze del vecchio Giuda, la morte improvvisa di Er, l’egoismo di Onan e, non da ultimo, attraverso la furbizia e la caparbietà di Tamar.

Raab: il coraggio della fede
Raab (Racab in Mt 1,15) era una prostituta, una di quelle donne che vendono il proprio corpo al piacere maschile. Viveva ai margini di Gerico (cfr Gs 2,15); la sua professione l’aveva relegata, un po’ per scelta, un po’ perché costretta dalla morale dei ben pensanti, ai margini della sua città. Raab era una donna facile al tradimento e alla menzogna.
Non siamo davanti ad una figura esemplare, eppure nell’episodio che la vede protagonista emergono anche delle indubbie qualità: anzitutto, anche se appare strano, la sua fede nel Dio di Israele. Alle spie degli ebrei, da lei accolte, dice: “So che il Signore vi ha consegnato la terra. Ci è piombato addosso il terrore di voi e davanti a voi tremano tutti gli abitanti della regione, poiché udimmo che il Signore ha prosciugato le acque del Mar Rosso davanti a voi, quando usciste dall’Egitto” (Gs 2,9-10). Queste parole sono una vera e propria confessione di fede nel Dio liberatore. Ma non è tutto! Raab professa la sua fede anche nel Dio creatore: “Il Signore, vostro Dio, è Dio lassù in cielo e quaggiù sulla terra” (Gs 2,11). È chiaro che alla fede Raab è giunta mediante una tradizione orale a lei pervenuta. Questa non l’ha lasciata indifferente. Ora che ha davanti degli israeliti è ben cosciente della forza di questo popolo, e riconosce come gli eventi della storia sono condotti da Dio.

Raab, pur dentro le sue contraddizioni, crede; è una donna di fede e diremmo anche una donna sapiente perché sa discernere la presenza di Dio nella storia. Il Nuovo Testamento lo riconosce, tanto che l’autore della Lettera agli Ebrei la introduce tra i padri e le madri di Israele: “Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori” (11,31).

Come abbiamo già ricordato, anche nella vicenda dl Raab troviamo il simbolo del filo rosso; per lei costituirà il ricordo del giuramento fatto dai due esploratori (cfr Gs 2,17-21). Davvero, la salvezza di Dio passa attraverso incontri imprevisti, segni umili e magari insignificanti, secondo una nostra logica. Ma è lo stile di un Dio che accompagna la storia non tra prodigi clamorosi ed evidenti ma dentro la trama del quotidiano. Sono proprio questi spaccati di realtà “minore” (cosa sarà mai una cordicella scarlatta?) a guarire il nostro cuore dall’incredulità e aprire lo sguardo nella fede alla mano provvedente di Dio.

Una tradizione vuole che Raab sia andata in sposa a Giosuè, il condottiero di Israele. Sembra che la storia biblica abbia meno pregiudizi della storia profana.

Rut: pietà e fedeltà
Il libro di Rut ha del collegamenti con la storia di Tamar: in 4,12 si parla di Peres, figlio di Tatuar e Giuda e, in 4,18-22, Peres è tra gli antenati di Davide. Un altro aspetto da evidenziare è che i dieci nomi della genealogia con i quali si chiude il libro si trovano anche in Mt 1,3-6.

Rut era la nuora di Noemi, una donna la cui esistenza fu tutta una discesa, almeno inizialmente. A causa di una grave carestia lascia Betlemme e con il marito e i due figli emigra in terra straniera. È strano, ma Noemi e la sua famiglia devono lasciare la “casa del pane” (tale è il significato del nome Betlemme), la terra promessa da Dio per poter vivere. Nel nuovo paese poi muore Elimèlec, il marito, e dopo dieci anni i due figli Maclon e Chilion, che nel frattempo si erano sposati con Orpa e Rut. Al colmo delle sventura, entrambi muoiono senza lasciare discendenza.
Noemi si trova nello stato più miserevole: vedova, con due nuore, vedove a loro volta, senza prole e in terra pagana. Che fare? Noemi decide di ritornare a Betlemme, nella terra santa. E qui subentra una svolta importante. Al momento della separazione dalle due nuore, Rut, con grande coraggio, ma anche sincero affetto, decide di non abbandonare la suocera, ma si seguirla: non teme di entrare a far parte di un popolo notoriamente ostile al suo.

Giunta a Betlemme nel tempo della mietitura, senza perdersi d’animo Rut va a spigolare nel campo di Booz, un lontano parente di Noemi. Abbiamo poi il famoso episodio notturno sull’aia, dove Rut va ad accovacciarsi ai piedi di Booz. Rut si offre a Booz permettendogli di unirsi a lei: questo farà sì che egli la riscatti. L’episodio si conclude con le nozze, e la nascita dopo poco di Obed, il nonno di Davide.

Si chiedeva Teodoreto di Ciro: “Perché la storia di Rut è stata scritta? Prima di tutto a causa del Signore Gesù Cristo che è disceso da lei secondo la carne... Ella poi si distinse perché era piena di pietà e ricevette dal Signore una ricompensa così grande che divenne l’antenata di colui che è la Benedizione delle gente”.

Betsabea: la bellezza al servizio del potere
 “A fianco di Davide ci fu una donna che, benché modesta di nascita, gli fu pari nel bene e nel male e, proprio in questo, non meno contraddittoria del suo consorte: Betsabea, la madre di Salomone, che ella mise sul trono come successore di Davide, passando sopra i cadaveri di tutti i suoi possibili concorrenti nelle successione”. Così E. Drewermann descrive Betsabea, una donna che non solo tradì il marito ma lo fece uccidere dal suo amante, il re Davide.

La storia di Betsabea è narrata nel secondo libro di Samuele (11,1-12,23) e nel primo libro dei Re (1,11-53). Qualche autore, leggendo tra le righe e interrogandosi sul racconto, si è chiesto se non fosse stata proprio Betsabea a voler sedurre il re secondo un piano ben preciso, più che Davide ad aver ceduto alla concupiscenza. Con il fascino della sua bellezza, più che vittima della passione di Davide ne sarebbe stata allora l’artefice. Sono supposizioni che il testo non conferma né smentisce. È certo però che quando vedrà in pericolo la successione regale, forte del suo ascendente sul vecchio re, Betsabea farà sì che non Adonia ma Salomone sia designato ufficialmente a succedere a Davide. La sua bellezza è al servizio del potere.

Ciò che sconcerta in questa storia, difficile da accettare, è che Mikal, la prima moglie di Davide, era stata ripudiata da Dio a causa del suo atteggiamento sprezzante verso il re (cfr 2 Sam 6,1-23), mentre Betsabea, la peccatrice, sulla cui coscienza grava un grande peccato, viene scelta per dare al re un successore, Salomone. Questo figlio, che esce da viscere contorte dal peccato, sarà amato da Dio ed edificherà il Tempio, luogo della presenza di JHWH tra il suo popolo. II disegno di Dio si compie all’interno di una storia attraversata dal sangue, procede tra purificazioni e pentimenti. Betsabea, donna della colpa, certamente, ma anche donna riscattata tramite il pentimento di Davide, che la inserisce nientemeno che nell’albero genealogico di Gesù Cristo.

Maria: la nuova Eva
Maria è l’ultima donna dell’elenco di Matteo. Con lei la storia delle attese si compie.

La nascita di Gesù è descritta in modo molto sobrio, quasi al limite della pura cronaca (cfr Lc 2,6-7). Maria compie tre gesti, i gesti di ogni donna divenuta madre: “diede alla luce”, “avvolse in fasce”, “pose in una mangiatoia”. Il tutto in un profondo silenzio. C’è silenzio alla culla di Cristo. Maria è là in modo adorante e allo stesso tempo attivo. Mai come in lei Dio e l’umanità si incontrano.

Ad una donna era stata promessa la salvezza (Eva), dalle donne, lungo il fiume delle generazioni, era stata “cullata” nella speranza (Sara, Rebecca, Rachele...), in una donna si è formata fino a prendere corpo (Maria), ancora ad una donna, quella dell’Apocalisse (la Chiesa), è assicurata la vittoria finale sul dragone.

A Natale, nella gioia dell’Emmanuele, noi ammiriamo in Maria di Nazaret l’icona della donna nuova. Davanti a questo segno, Dio vuole assicurarci, ancora una volta, sul nostro futuro. Sul travaglio della nostra nascita, nella fatica per un mondo più giusto, nella lotta tra il bene e le tante dominanti mondane, veglia Maria, che come vergine ci custodisce e come madre ci dona Gesù Cristo, nostro Salvatore.


LA SPERANZA
Avvento 2014

L’avvento è innanzitutto il tempo della speranza. Che cosa è la speranza? Come possiamo vivere pienamente oggi la dimensione di questo concetto, non solo in termini teologici ma anche in termini esistenziali e spirituali?

La prima dimensione della speranza è quella del tempo. Troppo spesso la speranza viene associata al solo futuro, mentre è un’esperienza che facciamo già al presente. O meglio: la speranza trae la sua origine dal presente e i suoi effetti incidono sul futuro e implicano un irrimediabile cambiamento. Nel linguaggio biblico la speranza è legata al presente della vita di Gesù e al futuro indicato dalla sua risurrezione. Il nostro avvenire si misura non col il metro del caso o delle probabilità ma con l’illimitatezza della grazia di Dio. Il suo perdono salva la nostra vita e ci promette la vita eterna. Ma non è tanto l’eternità che mi affascina quanto la trasformazione
della prospettiva in cui vivo la mia vita. La speranza mi porta a vivere con fiducia il presente perché credo che l’irrompere di Cristo nella storia dell’umanità abbia lasciato qualche traccia. Vivere la speranza vuol dire accettare di lasciarsi trasformare dal dono di una vita perdonata.

L’avvento potrebbe essere il tempo in cui rendo disponibile a lasciarmi perdonare e a perdonare.
La seconda dimensione della speranza che sorge dall’irrompere della vita eterna in Cristo è quella della fiducia. Una fiducia cieca nella capacità di Dio di [portare] suscitare nel mondo, qui e ora, un nuovo cielo e una nuova terra. [In un certo senso] Questa fiducia è un appello all’azione e alla responsabilità. In uno strano rapporto che sembra contraddittorio fiducia e prassi si intrecciano: fare, impegnarsi, agire alla luce della fiducia nell’amore di Dio e di conseguenza alla luce della fiducia nelle sue creature permette di costruire piccole oasi di pace, di giustizia , di protezione o di cura. Certo la nuova terra sarà espressone perfetta della giustizia, della pace e della riconciliazione, ma nel frattempo siamo inviati ad assaggiare sorsi della nuova creazione, gocce di speranza, briciole di amore e di fraternità. La strada della fiducia è lunga e l’avvento ci permette di ripercorrerla. Infatti l’avvento non guarda solo al passato della venuta di Gesù, ma apre anche alla prospettiva del ritorno. Il tempo può cambiare, il tempo può essere interrotto dalla speranza, il tempo può essere frantumato dall’esplosione della storia per lasciare lo spazio libero al tempo della seconda venuta della vita rinnovata.

L’avvento potrebbe essere il periodo in cui una rinnovata fiducia nella capacità di Dio di far nuove tutte le cose, può sollecitarmi a compiere ogni giorno un atto di amore verso i fratelli

La terza dimensione della speranza è quella della preghiera ed è  strettamente collegata al tempo dell’attesa e alla fiducia cieca nella bontà di Dio. Infatti, la preghiera si colloca tra la vita presene e la vita a venire. La preghiera segna il tempo dell’attesa tra speranze umane e speranza autentica. Con la preghiera si pone la questione del suo esaudimento, del suo fine, della sua rilevanza. La preghiera autentica è il momento in cui mi metto nelle condizioni di sentire la speranza incarnata in Cristo, ma il mistero del suo esaudimento non mi appartiene. La speranza nasce e rinasce nella preghiera. [Dio si rende presente al mondo] Nella preghiera scopro la presenza di Dio nel mondo e in me. La speranza che leggiamo nella Sacra Scrittura, che vediamo nei piccoli gesti miracolosi della quotidianità, che mettiamo come faro della nostra esistenza, si rivela nella preghiera. O meglio: nella preghiera rendo conto a Dio della mia speranza e aspetto che essa venga rinnovata, rafforzata, a volte ricreata del tutto. La speranza è uno dei linguaggi con cui Dio dialoga con noi, l’avvento è un tempo di speranza, il tempo di una comunicazione particolare con il Signore.

Nell’avvento posso decidere di riservare un tempo più prolungato alla preghiera, in cui pormi davanti a Dio con rinnovata fiducia nel suo infinito amore per me, sperimentando così la gioia di un’attesa vissuta nella vigilanza e nel desiderio autentico della sua venuta capace di ridare un senso pieno alla mia vita.