IL FRUTTO DELLO SPIRITO
“nella vita quotidiana”
riflessione di Carlo Maria card. Martini (+)




Leggiamo dalla Lettera di Paolo ai Galati:  “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri” (5,22-24).

Ci domandiamo:
- da dove è tratto questo testo della lettera ai Galati?
- perché viene usata l’espressione “frutto” dello Spirito e non “opera”?
- perché si dice “frutto” e non “frutti”?
- come mai nel titolo ho aggiunto la specificazione “nella vita quotidiana”?

1 - Il contesto del brano è costituito dai versetti immediatamente  precedenti (vv. 19-21) del capitalo 5 della lettera ai Galati: “Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio”.

Sono 14 azioni vergognose e devastanti, a cui si oppongono 9 atteggiamenti costruttivi positivi, chiamati appunto “frutto dello Spirito”. Dunque il nostro è un testo di contrasto, come è facile capire dalla particella “invece”: “Il frutto dello Spirito invece...”.

All’inizio del capitolo Paolo ha parlato della libertà del cristiano, di colui che, essendo Figlio di Dio, non è sottomesso a nessuna costrizione umana. Successivamente chiarisce come tale libertà dal legalismo non significa affatto libertinismo, fare tutto ciò che piace, bensì vuol dire stare sotto la legge dello Spirito, produrre i frutti dello Spirito. Di qui poi la descrizione delle opere della carne, degli atteggiamenti negativi di colui che si abbandona alla sfrenatezza e non vive da figlio di Dio, e la descrizione degli atteggiamenti di chi vive da figlio nella libertà dello Spirito e porta frutto.

2 - Certo sarebbe stato logico contrapporre alle “opere” della carne le “opere” dello Spirito, ma con il termine “frutto” l’apostolo sottolinea che quegli atteggiamenti costruttivi non sono opere nostre, ma dono, frutto, cioè qualcosa di gradito, di affascinante, di bello, di naturale, di spontaneo, di lieto, di gioioso, di gustoso come un frutto. Nascono dall’albero dello Spirito. Noi li viviamo, li compiamo, pero è lo Spirito che li produce.

3 - Ancora, ci aspetteremmo il plurale “frutti”, visto che si tratta di 9 atteggiamenti. Credo tuttavia che scegliendo la dizione al singolare Paolo abbia voluto far notare l’unità della vita nuova, in confronto con la frantumazione tipica della vita secondo la carne, della vita mondana. Quindi “frutto” è inteso in senso collettivo, come fruttificazione, ricchezza di frutti dello Spirito. Intuiamo già un abbozzo di morale cristiana, e proprio per questo ho scelto il titolo: “Il frutto dello Spirito nella vita quotidiana”.

La realtà costruttiva che lo Spirito mette in noi non è solo per alcuni eletti, non ha carattere straordinario; è parte della vita di ogni giorno, è la morale cristiana autentica, propositiva, che si contraddistingue rispetto a una morale cristiana puramente limitativa o impositiva. È un punto su cui mi soffermo perché è molto importante capire che siamo qui nel cuore della morale neotestamentaria.

Non è semplicemente una morale di ciò che è lecito e di ciò che è proibito. Spesso, quando sentiamo parlare di morale pensiamo subito a una proibizione, e di fatto c’è una morale che indica il limite minimo per non distruggerci e per non distruggere; è una morale del lecito e dell’illecito (questo non si può fare, è peccato). Tuttavia siamo al livello infimo della morale.

C’è un secondo livello, quello della morale del dovere, del come rispondere ai diritti, alle esigenze altrui, del come costruire una società responsabile; è la morale del rispetto dei diritti altrui, della edificazione di una convivenza sociale ordinata, ed è quindi più alta della morale del lecito e dell’illecito.

Ma la morale del Nuovo Testamento, espressa da san Paolo nella lettera ai Galati, è assai più alta perché attiene a ciò che è bello, non solo a ciò che è vietato e a ciò che è dovere. La morale evangelica parla di ciò che è irradiante, che rende felici, che rende la vita piena e feconda. È la morale dello Spirito ed è dunque frutto. Non mira semplicemente a una società ordinata, bensì a una società cordiale, calorosa, entusiasmante. Nel testo paolino si delinea allora un’immagine di uomo e di donna piena di frutti dello Spirito. Che si esprime in tre modi tipici della mentalità biblica: nel cuore, cioè nei sentimenti più profondi; nella bocca, cioè nel dialogare, nell’accostare la gente; nelle mani, cioè nell’azione. Potremmo parlare di una morale del cuore, di una morale della bocca, di una morale della mano. Si tratta di una ricchezza di umanità che ci rende inventivi, creativi, positivi, capaci di dare gioia. È insomma l’immagine di uomo, di donna, di società che Gesù Cristo promuove, l’unica società davvero vivibile, nella quale i rapporti, le relazioni sono fondate sulla serenità e sulla gratuità.

I 9 atteggiamenti che esprimono il frutto dello Spirito sono in parte atteggiamenti del cuore (amore, gioia, pace), in parte della bocca (benevolenza, cortesia, dolcezza nell’avvicinare gli altri), in parte delle mani (bontà, fedeltà, dominio di sé), e tutti descrivono la bellezza di una vita secondo le beatitudini, la ricchezza di una vita secondo il Vangelo.

- Cerchiamo di riflettere sul primo dei 9 atteggiamenti - “amore” - che comprende in qualche modo tutti gli altri. Un esempio concreto di questo “amore” lo leggiamo in un testo dell’evangelista Luca: “In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante” (7,11-17).
Ci sarebbe molto da dire sulla parola “amore”, anche perché ne evoca infinite altre, ma preferisco essere semplice e indicare due significati che ha nel contesto della lettera di Paolo ai Galati.

Uno, molto generale, è quello dell’amore di Dio diffuso nei nostri cuori, l’atteggiamento che riassume tutta la morale evangelica, e infatti Paolo ha affermato in Gal 5,14: “Tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso”. In un certo senso, iniziando con “il frutto dello Spirito è amore”, ha già detto tutto. Però questa parola ha un’altra sfumatura, un senso più specifico, che la farebbe tradurre piuttosto come “cordialità” o “simpatia” o “cuore buono”. È allora un atteggiamento tipico dell’interiorità; è la presupposizione interiore al pensare bene, al parlare bene, all’agire bene. Dunque, è l’atteggiamento radicale, il primo della nuova morale evangelica. Non a caso abbiamo richiamato il brano dell’evangelista Luca con l’episodio della risurrezione del figlio della vedova di Nain. Se scorriamo con attenzione la pagina, scopriamo che vengono esemplificati i tre atteggiamenti: della mano, della bocca, del cuore. La mano: il gesto buono di Gesù che si accosta alla bara, la tocca e dice: “Giovinetto, dico a te, alzati!”. La bocca: la parola buona, amichevole con cui Gesù si accosta alla madre e le dice: “Non piangere”. Il cuore buono: anzitutto Gesù, vedendo la donna, “ne ebbe compassione”. Dalla compassione o simpatia - che è il cuore - nasce sulla bocca la parola consolante e poi dalla mano il gesto efficace. È la morale evangelica nella sua globalità. L’amore o cordialità è il primo degli atteggiamenti. “Amore” tradotto con “cordialità, simpatia, cuore aperto” è la capacità immediata di capire le sofferenze e le gioie di chi ci sta intorno; è una sorta di simpatia istintiva, è il cuore largo, pronto, radice di tutta la morale neotestamentaria espressa qui da san Paolo. Possiamo ricordare anche un passo di Paolo nella lettera ai Romani, dove descrive questa “simpatia”: “L’amore non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno... rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto” (12,9-10.15). Gioire con chi gioisce, piangere con chi piange significa entrare nei sentimenti altrui. Del resto, “simpatia” viene dal greco che significa “immedesimarsi con”. È la simpatia che muove Gesù verso il feretro del giovane morto. Ancora, la cordialità frutto dello Spirito è la volontà di donarsi, è un amore che vuole comunicare ad altri se stesso ancora prima di cose buone; è la capacità di entrare in sintonia profonda fin dall’inizio.

Per chiarire ulteriormente tale importantissimo atteggiamento, ci chiediamo qual è l’opposto della cordialità. Penso sia la cattiveria, il cuore cattivo. Anche se ci ripugna credere che possa esistere il cuore cattivo, sperimentiamo purtroppo che c’è; ci sono persone che vogliono il male per il male. Questa è cattiveria, diabolicità. L’amore, proprio di Dio, è volere il bene per il bene. C’è tuttavia un altro atteggiamento opposto alla cordialità che può non essere peccato: è la grettezza del cuore da cui deriva una moralità meschina, preoccupata soltanto di quello che deve fare o di quello che deve evitare. Il cuore ristretto è qualcosa di brutto e di immorale secondo il Nuovo Testamento appunto perché genera una moralità fredda, che confina facilmente con l’egoismo, con le pretese. Un mondo dai rapporti tesi, dove tutto si riduce a gettoniere che danno magari il prodotto richiesto ma senza un sorriso, senza una comunicazione, è un’anticamera dell’inferno. L’amore, invece, la cordialità è la virtù per la quale risplendono persino le cose più piccole, e i gesti semplici diventano belli e costruttivi.